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(WSI) – C’è stato negli ultimi mesi un gran fiorire di previsioni sull’andamento dell’economia cinese. Qualcuno, come la banca d’investimenti Morgan Stanley, ha cominciato ad annotare i segnali di un prossimo rallentamento della marcia del gigante d’Asia, valutando però questa circostanza come un fatto positivo. Per almeno due motivi. Essa manifesterebbe una ciclicità di congiunture tipica dei sistemi capitalistici e iscriverebbe la Cina definitivamente al club dei Paesi di mercato libero. Inoltre sgonfierebbe i pericoli speculativi legati alla fragilità del sistema bancario e ridimensionerebbe le massicce importazioni di petrolio contribuendo con una minore domanda a calmierarne le oscillazioni del prezzo.
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Altri hanno continuato a leggere il futuro della Cina in chiave dinamica con un ritmo di sviluppo sempre molto alto. Già nel 2004 l’economia aveva segnato un balzo del 9,5% rispetto al 2003, addirittura con uno scarto positivo rispetto alle previsioni. La Goldman Sachs, merchant bank americana, ha ritoccato i suoi indicatori. La percentuale di crescita del 2005 valutata nell’8,1% salirebbe all’ 8,8%.
Qual è lo stato dell’arte? Su una lettura sembra che vi sia concordanza di giudizi. Il prodotto interno lordo a prezzi correnti supererà – senza l’apporto di Hong Kong – alla fine del 2005 quello italiano. Guardando invece il prodotto interno lordo ma a prezzi costanti, aggiustato cioè per l’inflazione, gli scenari sono due. Il primo, includendo Hong Kong, prevede che la Cina metta la freccia sull’Italia il prossimo anno. Il secondo – lasciando a parte l’ex colonia inglese – indica il punto di svolta nel 2007.
Nella sostanza il risultato cambia di poco. Se queste variabili macroeconomiche aiutano a definire la classifica delle capitali più industrializzate si potrebbe già collocare Pechino al sesto posto della graduatoria del G7 prima di Roma e di Montreal. E a non abissale distanza da Inghilterra, Francia e Germania. Addirittura per gli esperti del World Economic Forum (che in questi giorni si tiene a Pechino) nel 2006 il valore dei beni e dei servizi prodotti in Cina affiancherà quello tedesco. Sul sorpasso del Drago ai danni di Berlino non vi è unanimità di vedute. C’è chi sostiene con fondate ragioni che si tratti di una esagerazione e di una anticipazione eccessiva dei tempi e degli scenari globali del domani. Ma che il Pil nominale cinese sia ormai al di sopra di quello italiano (il Pil reale lo sta seguendo) e che stia concludendo una corsa verso l’alto cominciata nel 1980 lo certifica anche il Fondo Monetario Internazionale.
Il prodotto interno lordo cinese (a prezzi correnti) ha queste performance: 1649,39 miliardi di dollari nel 2004; 1843,12 miliardi nel 2005; 2040,33 miliardi nel 2006. L’Italia – secondo Fmi – ha toccato i 1680,69 miliardi di dollari nel 2004; sale a 1836,41 miliardi nel 2005, poco meno di sette al di sotto della Cina; sarà a 1908,85 miliardi nel 2006 quando il divario prenderà la rincorsa.
In termini di pil a prezzi costanti la curva è lievemente differente e allungata nel tempo (uno o due anni) ma il tracciato è il medesimo. Un’espansione che continua a essere alimentata dalle esportazioni le quali beneficiano sui mercati mondiali di bassi costi del lavoro e modestissimi vincoli sia sociali sia ambientali.
Il Paese è in un ciclo virtuoso di industrializzazione e di trasformazione ma resta lontano dalla ricchezza distribuita uniformemente sul suo immenso territorio. I grandi numeri non devono trarre in inganno. Il reddito medio pro capite nel 2005 non oltrepasserà di molto i mille dollari. E lo stesso governo confermava due giorni fa che la campagna è indietro di ben 10 anni, in alcune zone di 20 o 30, rispetto ai livelli di benessere raggiunti nelle città. Come dire che non è tutto oro ciò che luccica. E che il miracolo continua ad avere due facce. Quella del sorpasso sul pil italiano e presto tedesco. E quella dei 300 milioni di cinesi che ancora sbarcano il lunario con due dollari al giorno.
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