Primo Paese arabo a prendervi posto, così come il primo ad andarsene: l’addio all’Opec del Qatar, annunciato il 3 dicembre, potrebbe sembrare a prima vista controproducente. Per quanto sia vero che il piccolo Paese non sia che l’11esimo produttore petrolifero del cartello, con i suoi 600mila barili al giorno (meno del 2% dell’output del cartello), restare nel club significa comunque dare voce a un interesse nazionale rilevanti.
“Raggiungere la nostra ambiziosa strategia richiederà indubbiamente sforzi concentrati, impegno e dedizione per mantenere e rafforzare la posizione del Qatar come produttore leader di gas naturale“, ha affermato in una nota il ministro dell’Energia qatariota Saad al-Kaabi, “vorrei riaffermare l’orgoglio del Qatar nella sua posizione internazionale in prima linea nei produttori di gas naturale e come il più grande esportatore di gas naturale liquefatto”. Questa, la versione ufficiale.
L’addio però, avrebbe ben poco a vedere con l’economia e la politica energetica del piccolo Paese arabo. A dividere il Qatar dal membro più prominente dell’Opec, l’Arabia Saudita, sono questioni di tipo politico. Nel giugno 2017, il Qatar è stato colpito da un embargo con l’accusa di aver contribuito e finanziato il terrorismo internazionale; all’iniziativa hanno preso parte, oltre ai sauditi, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto. L’embargo resta tuttora in vigore. Secondo l’analista Tim Daiss, poi, “la mossa del Qatar potrebbe indicare,che all’interno dell’Opec crescono crepe nella decisione dell’Arabia Saudita di creare un rapporto sia geopolitico sia energetico con la Russia”, ha scritto su OilPrice.
Un’ultima chiave di lettura sull’addio all’Opec, infine, l’ha offerta l’Economist, ricordando come “da quando è iniziato l’embargo, il Qatar ha giocato una sapiente trama diplomatica, conquistando i membri scettici dell’amministrazione Trump con le promesse di frenare il finanziamento del terrorismo ed espandere al-Udeid, la principale base aerea dell’America nella regione. Lasciare il cartello”, conclude la rivista britannica, proteggerà il Paese “da possibili cause legali e dai rabbiosi tweets presidenziali”.