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Quanto vale la moda italiana

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Il fashion made in Italy è in buona salute, ma dipende sempre più dai mercati esteri

A cura di Benedetta Gandolfi

Le aziende della moda italiana crescono di più di quelle del comparto manifatturiero, sono più redditizie e anche più aperte al commercio estero. D’altra parte, facendo un confronto con i cugini di Oltralpe, le società italiane hanno registrato crescite più modeste e anche margini meno elevati rispetto alle francesi. Tuttavia risultano molto più solide finanziariamente: la maggior parte dei gruppi ha pochi debiti e grande liquidità.

Questa è la foto scattata al settore da parte di R&S Mediobanca e diffusa all’interno dell’ultima edizione del Focus Moda, dove emerge la grande dinamicità di un settore sempre più internazionale: domina l’abbigliamento (il 40,5% dei ricavi totali), seguito da pelletteria e occhialeria. Gli analisti dell’istituto hanno preso in considerazione 163 aziende del settore moda che nel 2017 vantavano un fatturato superiore a 100 milioni di euro. Cosa emerge? Una reddittività un po’ in calo ma un fatturato aggregato pari a 70,4 miliardi di euro, in crescita del 28,9% rispetto al 2013 ma solo del 4,5% rispetto all’ultimo anno. Il settore ha un impatto crescente sul nostro Paese: nel 2017 è il 3,6% del Pil nazionale.

I numeri si fanno all’estero. L’economia italiana, si sa, dipende in larghissima parte dal mercato delle esportazioni e non è la sola. I numeri del sistema moda lo dimostrano. Secondo gli analisti di Mediobanca, infatti, il fatturato estero è sempre più determinante nei bilanci delle aziende analizzate: nel 2017 ha rappresentato il 63% delle vendite totali (+22,9% sul 2013), quota superiore a quella registrata dalle principali società manifatturiere italiane (56,7%).

A livello settoriale, i comparti più orientati ai mercati esteri sono l’occhialeria (89,8%), il tessile (72,5%) e la pelletteria (66,1%). Questo andamento è europeo, non solo italiano. Nel 2017 l’85,2% delle vendite, in media, è stato fatto fuori dal Paese di origine. I francesi, con l’87,7%, sono davanti a tedeschi (83,6%) e spagnoli (82,3%). L’Italia, col suo 78,3%, dimostra di avere un export con buoni margini di sviluppo globale. Abbondantemente sotto la media le aziende britanniche (52,8%), influenzate dalla presenza di gruppi come Arcadia e New Look che operano in buona parte sul mercato domestico.


La sfilata primavera-estate 2019 di Valentino

Pochi debiti e tanta liquidità. Le aziende della moda generalmente vantano anche fondamentali solidi, sono infatti molto più capitalizzate rispetto a quelle del comparto manifatturiero. Delle 163 analizzate, 15 hanno un fatturato superiore a 900 milioni di euro. Queste, in genere, sfruttano il proprio vantaggio competitivo sulle altre distinguendosi per redditività (margine operativo all’11,6% contro il 6,8% delle altre) e liquidità (l’incidenza della liquidità sull’indebitamento è del 139,8% contro il 52,2% delle altre).

Le 148 società follower rispondono con una maggiore crescita media annua dei ricavi nel 2013 – 2017 (+9,5% contro il +3,5% delle Top 15). Le Top 15, che nel 2013 godevano di una fortissima concentrazione dei profitti (avevano generato il 77,7% di quelli aggregati), hanno però perso parte di questo strapotere. Nel 2017 la quota dei profitti aggregati si è ridotta fino al 56,2%, portando a una sostanziale equi-distribuzione degli utili netti. È diminuita poi la disparità fra le aziende del sistema moda Italia: tra il 2013 e il 2017 è scesa del 32% la quota di aziende fragili e aumentata del 15% quella delle imprese investment grade. Anche la probabilità di fallimento delle imprese fragili è in calo (-20%), mentre quella delle imprese investment grade è aumentata del 12%. In altre parole, le aziende solide appaiono un pò meno solide e le rischiose un pò meno rischiose, delineando un quadro più omogeneo.


La vetrina della boutique di Gucci in via Montenapoleone a Milano

I francesi fatturano e guadagnano di più. Nel periodo 2013-2017, i 43 principali gruppi europei della moda hanno registrato ricavi aggregati per 226,2 miliardi di euro. Nonostante l’Italia con le sue big 15 sia il Paese più rappresentato a livello numerico (oltre un terzo del totale), è la Francia, con il 30,3% del fatturato aggregato, ad aggiudicarsi il primato per giro d’affari (favorita anche dal formidabile apporto dei marchi italiani acquistati dai colossi francesi). Sul podio anche Italia (13,4%) e Spagna (13%). Tra i gruppi principali, il gigante francese LVMH, con 70 marchi in cinque diversi comparti e 4.374 store (di cui l’88,4% all’estero), si conferma leader assoluto per dimensioni, anche grazie alla politica di acquisizioni di marchi italiani della moda.

Quotata a Parigi e con la famiglia Arnault azionista di controllo, LVMH viaggia su un fatturato pari a 42,6 miliardi di euro. Inseguono a grande distanza il gruppo spagnolo Inditex che controlla Zara (25,3 mld), il tedesco Adidas (21,2 mld), lo svedese H&M (20,3 mld) e il francese Kering, proprietario fra gli altri di Gucci e Bottega Veneta (15,5 mld). Luxottica (9,2 mld), primo tra gli operatori italiani, è al settimo posto, mentre il gruppo Prada (3,1 mld) è quattordicesimo. La crescita media annua del fatturato nel 2013-2017 fa sorridere le aziende italiane: Valentino (+22,2%) e Moncler (+19,7%) sono rispettivamente seconda e quarta nella classifica dominata dalla danese Pandora (+26,1%). Al terzo posto si inserisce la francese SMCP (+21,5%).


Il backstage della sfilata primavera-estate 2019 di Fendi

Danimarca e Spagna con il turbo. Il fatturato della moda europea è cresciuto del 7,4% nel 2013-2017. Spiccano Danimarca (+13,6%) e Spagna (+10,1%), le uniche ad andare a doppia cifra. Sotto la media europea, invece, Regno Unito (+5%) e Italia (+3,5%). In calo la redditività, con l’ebit margin europeo che si attesta a quota 15,3% nel 2017 (era al 17% nel 2013). I conti vanno bene ai gruppi danesi (22,6% nel 2017) e a quelli francesi (19,6%).

Gli operatori italiani (11,6%) sono costretti a inseguirli, restando però davanti agli ultimi in graduatoria, i tedeschi (10%). A livello europeo il settore sfiora, infine, il milione di occupati. Nel 2017 i 43 operatori europei hanno dato lavoro a quasi 990mila persone (+190mila unità sul 2013). I gruppi italiani hanno incrementato la forza lavoro di oltre 30mila unità, secondi soltanto agli spagnoli che hanno ampliato il proprio organico di 48mila unità (riferibili in gran parte al gruppo Inditex, +44,7mila), ma davanti ai francesi (+20,3mila).

L’articolo è stato pubblicato sul numero di aprile del magazine Wall Street Italia.