(WSI) – Troppo grandi per fallire, troppo piccoli per essere aiutati. La crisi finanziaria che ha investito il mondo dalla fine del 2007 ha visto soccombere tutti: le imprese, le banche, le famiglie, la finanza, persino i governi, e adesso come nuova possibile vittima c’è anche una divisa, l’euro. Eppure, qualcuno è stato salvato, molti sono stati mandati ancora più a fondo. Lo ricorda, con accuratezza di dati e di cifre, il Rapporto sui diritti globali 2010, presentato stamane nella sede della Cgil a Roma dal curatore Sergio Segio, l’ex terrorista di Prima linea da anni impegnato nel sociale.
“Viviamo in una società sempre più spaventata del futuro, in cui i legami sociali sono sempre più deboli e quindi più fragile la sua coesione – rileva il segretario della Cgil Guglielmo Epifani – crescono l’individualismo e l’antagonismo laddove servirebbero relazioni e solidarietà”. Dalla crisi non sembra emergere un mondo migliore: “Passata la paura – dice Segio – tutto è tornato come rpima: banche e holding finanziarie e assicurative a macinare profitti, lavoratori a tirare la cinghia”.
Un ceto medio sempre più povero. Questo perché, ricorda Sergio, “l’inevitabile corrispettivo e conseguenza del too big to fail, del troppo grandi per fallire, è che vi sono i troppo piccoli, troppo deboli e troppo senza potere per essere aiutati. Anzi, sono loro a essere costretti ad aiutare i grandi – grandi e voraci – attraverso l’eterno gioco fondato sulla privatizzazione dei profitti e sulla socializzazione delle perdite”. Un giudizio troppo ideologico? Ci sono numeri e percentuali che lo sostengono. Limitandosi all’Italia, i dati parlano per il 2008 di 2.737.000 famiglie (l’11,3% del totale, con un incremento dello 0,2% sul 2007) in condizioni di povertà relativa. Con il ceto medio in bilico, pronto a raggiungere la parte più svantaggiata della popolazione: “1,8 milioni di famiglie giovani, a reddito medio-alto – si legge nel rapporto – soffrono a causa del mutuo per la casa, che porta il 56,5% di loro ad arrivare con difficoltà alla fine del mese, il 54% a non poter accantonare un solo euro”.
Poveri lavoratori. Non solo: “Nel 2009 le famiglie italiane si sono indebitate per 524 miliardi di euro, più del 2008, 21.270 euro per ogni cittadino. Per i lavoratori dipendenti, il debito annuo è di 15.900 euro, il 79,4% per la casa e il resto per consumi diversi”. Pensare che un tempo gli italiani erano un popolo di risparmiatori, e il risparmio era tale da costituire una barriera di protezione contro le crisi finanziarie. Adesso questo risparmio s’è dissolto.
Tra le ragioni principali ci sono i salari troppo bassi, al palo da un decennio: “Avere un lavoro non protegge dall’impoverimento. 13,6 milioni di lavoratori guadagnano meno di 1.300 euro netti al mese, di cui 6,9 milioni meno di 1.000”. “In sei anni, tra il 2002 e il 2008, il reddito netto familiare ha perso ogni anno 1.599 euro tra gli operai, 1.681 euro tra gli impiegati”. E quindi, nel 2009 “il 10% degli occupati è sotto la soglia della povertà relativa (un dato tra i peggiori dell’Unione Europea, che conta in media l’8%)”. Nel 2007 la percentuale era dell’8,6%. Sono quelli che le statistiche definiscono “working poor”, poveri con un’occupazione, solo un po’ meno poveri dei disoccupati.
L’emergenza casa. Gli aumenti dei prezzi, della disoccupazione e il livellamento verso il basso dei salari hanno aggravato l’emergenza casa. Entro il 2011, si legge nel rapporto, si stima che 150.000 famiglie italiane saranno sfrattate e perderanno così l’abitazione. L’affitto incide sui redditi dei pensionati e lavoratori dipendenti tra il 30 e 70%. Nel 2008 risulta un 18,6% in più di sfratti esecutivi rispetto al 2007. In Italia i senzatetto sono stimati tra 65 mila e 120 mila. Il problema è più grave per le famiglie straniere: 1 milione e 300.000 sono in affitto. L’85% ha un contratto non registrato o registrato per un canone inferiore al reale, “l’affitto di posti letto avviene in piena violazione delle norme, l’addebito di spese condominiali va spesso oltre il consentito e il legale, gli alloggi sono senza dotazioni minime nè certificazioni”.
C’è poi l’altro lato della medaglia. Nell’introduzione al rapporto Segio elenca uno dietro l’altro i superbonus e i superemolumenti ottenuti in tempi recentissimi dai manager di banche e imprese, sfidando le accuse di demagogia: “Carlo Puri Negri (ex vicepresidente esecutivo di Pirelli Re) con 14 milioni di euro, nonostante la società abbia chiuso l’anno con un passivo di 104 milioni; poi vengono Claudio De Conto (ex direttore generale di Pirelli) con 7,3 milioni e Marco Tronchetti Provera (presidente di Pirelli) con 5,6 milioni”.
Citati anche i top manager Fiat, nell’anno delle ristrutturazioni e degli annunci di lacrime e sangue: “l’ad Sergio Marchionne, ha percepito 4 milioni e 782 mila euro, poco meno dell’ex presidente della Fiat Luca Cordero di Montezemolo che ha incassato, sempre nel 2009, cinque milioni e 177 mila euro”. Le banche non sono state da meno, tanto che, conti alla mano, “con il compenso di 100 top manager si potrebbero insomma pagare i salari di 10.000 lavoratori”. Del resto è andata così anche nel resto del mondo: “Complessivamente, secondo uno studio del Wall Street Journal, i 38 maggiori istituti finanziari hanno distribuito ai loro collaboratori145 miliardi di dollari, con un incremento del 18% rispetto allo scorso anno e superando persino il 2007, l’ultimo anno della bolla speculativa prima del crac”.
Invertire la rotta. C’è ancora la possibilità di invertire la rotta, di “non sprecare una buona crisi”, come alcuni economisti ed esponenti politici hanno suggerito negli ultimi mesi? La Cgil ha una sua ricetta: “Uno dei principali punti di forza di un nuovo modello di sviluppo economico – sostiene Epifani – deve essere la convergenza fra reti di imprese sul territorio e reti telematiche. Questo non è un processo spontaneo, ma va perseguito con politiche mirate al recupero del ritardo strutturale del nostro paese nell’adozione di tecnologie innovative. L’Italia ha bisogno di un progetto forte anche sulle nuove frontiere della green economy, delle biotecnologie e della salute, delle infrastrutture materiali per una migliore mobilità e di quelle immateriali, costituite da reti relazionali complesse tra istituzioni, cultura, economia, ecologia e comunità locali”.
Rilanciare il Paese. Non si tratta solo di aiutare i più deboli, ma anche di rilanciare il paese che, ricorda il segretario della Cgil, “ha un gap di competitività nei confronti di altri Paesi anche perché non ha saputo scommettere sul sapere e sull’innovazione sociale e tecnologica”. Al di là delle continue rassicurazioni del governo sul fatto che “il peggio sarebbe passato e addirittura l’Italia avrebbe reagito meglio di altri Paesi”.
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