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Il rally dei mercati emergenti ha i giorni contati?

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Quanto ossigeno è rimasto nelle borse dei Paesi emergenti? La domanda è d’obbligo, dopo un rally del 23,13%, che ha permesso all’Msci emerging markets di doppiare i listini dei Paesi sviluppati (11,96%) nei primi sette mesi dell’anno. A giugno, in Asia, l’indice Msci Taiwan ha persino toccato il massimo degli ultimi 17 anni, sostenuto dalle performance dei settori informatico e finanziario. I capitali continuano ad affluire copiosi, sostenuti dal dollaro debole, malgrado qualche timore per le ripercussioni che l’annuncio della riduzione del bilancio della Federal Reserve, il prossimo autunno, potrebbe esercitare sui mercati. Siamo alla vigilia di una pausa nella lunga corsa dei Paesi meno sviluppati?

“Riteniamo che i mercati emergenti continuino ad offrire un potenziale di crescita superiore rispetto ai mercati sviluppati – rassicura Mark Mobius, Executive Chairman del Templeton Emerging Markets Group e tra i più ascoltati guru del mondo in via di sviluppo -. In Cina, continuiamo ad individuare valore nei titoli legati a Internet ed orientati al consumo. Il governo cinese rimane focalizzato sulla sua iniziativa “Internet Plus”, dove l’IT svolgerà un ruolo chiave nell’alimentare la prossima fase di crescita economica della Cina. Nell’area del consumo, giudichiamo favorevolmente il mercato automobilistico, in quanto i tassi di penetrazione rimangono piuttosto bassi rispetto ai mercati sviluppati. Un’altra area che ci interessa è quella dell’intrattenimento. Per esempio, in Cina e nei mercati emergenti in generale, osserviamo una rapida crescita di cinema e multisale, oltre ad altri tipi di luoghi di intrattenimento”.

Più in generale, Mobius resta convinto che i fondamentali delle azioni dei mercati emergenti rimangano attraenti. Soprattutto alla luce delle valutazioni attuali. A fine giugno, l’Msci em scontava multipli di 14,9 volte gli utili degli ultimi dodici mesi (price/earning), a fronte di un rapporto prezzo valore di libro di 1,7x (price/book): livelli giudicati relativamente attraenti rispetto all’indice rappresentativo dei Paesi industrializzati, l’Msci world, con un p/e di 21,5x e un p/b di 2,3.

Non è sufficiente, tuttavia, ad abbassare la guardia rispetto ai rischi che potrebbero scaturire da un eventuale cigno nero, ovvero un imprevedibile shock di grossa portata.

“La Cina è un paese dominante nei mercati emergenti, sia come mercato che come propulsore della domanda di molte materie prime industriali. Un eventuale rallentamento in Cina ed un “deragliamento” del suo processo di riforme strutturali potrebbero avere implicazioni a breve termine per il sentiment nei confronti dei mercati emergenti nel loro complesso” – osserva Mobius -. “Più in generale, il mondo appare ancora sbilanciato. Molti paesi hanno livelli di debito elevati e le preoccupazioni in merito a tale problema e altri fattori macroeconomici potrebbero causare volatilità nel breve termine”.

Va detto che lo spettro di un hard lending, ovvero un atterraggio duro della seconda economia al mondo, riemerge sistematicamente ad ogni segnale di assestamento della locomotiva asiatica. E a dispetto dei ripetuti allarmi, Pechino ha dimostrato una sorprendente capacità di tenere il passo. Dopo essersi raffreddata per sei anni consecutivi, infatti, la crescita del pil reale sembra destinata a risalire nel corso del 2017: il 6,9% annualizzato appena messo a segno nel secondo trimestre, supera il 6,7% registrato nel 2016 e si colloca ben oltre le aspettative degli analisti.

“L’ultima ondata di pessimismo sull’economia cinese si è focalizzata su due venti contrari: la riduzione della leva finanziaria e un irrigidimento delle condizioni del mercato immobiliare: in sostanza si parla di una stagnazione di tipo giapponese”, scrive su Project Syndacate Stephen S. Roach, ex presidente di Morgan Stanley Asia e capo economista dell’azienda, che però avverte: “Ancora una volta le lenti dell’Occidente non sono a fuoco”.

Come il Giappone, la Cina è un’economia ad alto tasso di risparmio. Rispetto al Sol Levante, però, dispone di un cuscinetto più robusto per evitare problemi di sostenibilità: secondo il Fondo Monetario Internazionale, nel 2017 il risparmio cinese raggiungerà il 45% del pil a livello aggregato, ben oltre il 28% del Giappone. Vale la pena ricordare che su Tokyo grava un debito pubblico enorme, pari al 239% della ricchezza prodotta in un anno dal Paese, contro il 49% di Pechino.

È vero, non bisogna sottovalutare il problema delle passività aziendali, salite al 157% del pil a fine 2016, rispetto al 102% del 2008. “Questo rende la riforma delle aziende statali – dov’è concentrata la parte preponderante della crescita dei debiti – ancora la più importante negli anni a venire”. Ma secondo Roach, sbaglia chi crede che il fenomeno delle bolle esplose in Giappone e negli Stati Uniti sia destinato a materializzarsi anche nel colosso asiatico. “La Cina è in condizioni molto migliori per evitare un’implosione”.