Anche quest’anno Cerved ha presentato, per il terzo anno consecutivo, il suo rapporto sullo stato delle PMI italiane con un approfondimento, questa volta, sugli agenti dell’innovazione: le start-up e le Piccole e Medie Imprese innovative.
Le analisi effettuate grazie all’accesso dell’immenso patrimonio dati di cui dispone l’azienda, in questo caso i bilanci di più di 130.000 PMI, se da un lato offrono strumenti di lettura interessanti, dall’altro sono minati da una “vista” radicata sui luoghi comuni di gestione d’impresa e avulsa da considerazioni strategiche.
Qualche esempio a tal proposito
Tra tutti i parametri presentati (fatturato, Mol, indebitamento, ROE, ecc.) brillava per la sua assenza la produzione di cassa, pur sapendo tutti quanto sia essenziale questo aspetto (le aziende falliscono per problemi di liquidità, non di fatturato o indebitamento, ecc.). A mo’ di malconcia stampella, per ovviare a questa mancanza, è stato presentato l’aumento dell’indebitamento, finanziario e commerciale, come fatto positivo, sostenendo implicitamente che poiché le aziende non sono capaci di autofinanziarsi, ma della liquidità hanno bisogno, se c’è qualcuno che gli da credito possono finalmente andare avanti.
Tale distorta narrazione risuona un po’ assurda come quella di considerare una crescita della spesa farmaceutica come un segno di buona salute di una popolazione, che per stare bene deve consumare farmaci, o come l’affermazione che l’aumento delle forze di polizia sia indice di un luogo più sicuro!
Un altro tema importante affrontato senza considerazioni strategiche, e dunque con considerazioni fuorvianti, è quello della produttività. In Italia, si è detto, vi è un problema di mancato aumento della produttività fin dalla metà degli anni ’90, più accentuato che negli altri paesi occidentali. La causa è stata indicata nella mancanza di innovazione, e da qui l’approfondimento sulle start-up.
Purtroppo una causa ancora più profonda, totalmente assente dall’analisi, è l’abbondanza dell’offerta in tantissimi settori rispetto alla domanda, ovvero un posizionamento strategico debole della stragrande maggioranza delle imprese che impone loro di fare efficienza e abbassare i prezzi. Da questa prospettiva allora l’iniezione di tecnologia per produrre “meglio” (ovvero di più e a costo più basso, ad esempio con il paradigma Industry 4.0), ciò che già non interesse più, a cosa può servire?
Forti di queste convinzioni, che poi sono quelle più diffuse, si è passato a considerare i portatori sani di innovazione e i loro problemi: le start-up. Anche qui è da rilevare una mancanza di approccio strategico inteso come indagine sulle motivazioni profonde del sottostante: perchè parlare di chi fa “innovazione” (che potrebbe essere anche banale) invece di parlare di che innovazione viene fatta (che aiuterebbe a valutare se si sta “startuppando” bene o si stanno solo facendo giocare un po’ di ragazzini)?
Ancora una volta è da rilevare come l’assenza di cultura e approccio strategico, ovvero un’analisi dei comportamenti e non solo delle loro risultanze, dia viste parziali, superficiali e fuorvianti sulla realtà economica, alimentando convinzioni pericolosamente sbagliate, nel peggiore dei casi, o ininfluenti, nel migliore, e ritardando quella profonda riprogettazione di cui il nostro sistema economico ha bisogno.