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Realtà parallele: gli strabismi di un mercato sovraccarico

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ROMA (WSI) – Gli strabismi di un mercato sovraccarico Onement VI è una tela tutta blu con una sottile striscia bianca verticale che divide in due la composizione. L’ha dipinta Barnett Newman nel 1953 e ha rappresentato per l’artista (che considerava Rothko un rivoluzionario per finta) il totale rifiuto della società borghese. Barnett teorizzava molto, non aveva studiato arte, ma filosofia. L’opera è stata venduta da Sotheby’s tre settimane fa (nei giorni in cui la borsa americana faceva segnare i massimi storici) per 44 milioni di dollari. Ecco un esempio degli effetti del Quantitative easing, hanno commentato in molti. Onement VI misura 259 centimetri per 305. Ognuno potrà mettere facilmente a confronto il suo patrimonio di famiglia, accumulato probabilmente in più generazioni, e calcolare a quanti centimetri quadrati di quest’opera corrisponde. Prima di deprimersi e parlare di asset inflation (o di inflazione tout court) ci si potrà risollevare d’animo considerando che di recente la stessa Sotheby’s ha venduto un arazzo dei Gobelins delle stesse dimensioni di Onement VI per soli 100mila dollari.

È del periodo migliore, quello di poco successivo alla nazionalizzazione della Manifacture des Gobelins da parte del Re Sole, ed è stato tessuto da due grandi maestri come Jean Le Febvre il Giovane e Jan Jans Figlio. Ogni metro quadrato di arazzo richiedeva all’epoca un anno di lavoro. Newman ha certamente migliorato la produttività nell’arte, sia in termini di lavoro per metro quadrato sia in termini di valore creato per unità di tempo. L’inflazione nell’arte, dunque, c’è e non c’è. Un po’ come nell’economia e nei mercati. I bond scendono da un mese perché si sono messi in testa che la Fed stia per ridurre gli acquisti mensili di Treasuries.

In realtà la Fed ha detto solo che starà a guardare la situazione e che potrà, a seconda del bisogno, non solo ridurre ma anche incrementare gli acquisiti di titoli. Il mercato ha però deciso che li ridurrà perché l’economia va bene ed è in grado di camminare da sola. Se però l’economia va bene, allora l’inflazione salirà molto presto e la Fed dovrà alzare prima o poi i tassi e per i bond saranno guai. Minori acquisti di titoli, si noti, dovrebbero significare, al margine, meno potenziale inflazionistico futuro e non di più. Di tutta questa inflazione, tuttavia, non c’è gran traccia, anzi. In America sta scendendo e l’anno prossimo si sa già che sarà ancora molto bassa, al punto che qualcuno comincia addirittura a paventare la deflazione. In Cina siamo al 2 per cento, la metà rispetto a due anni fa.

In Europa siamo all’1.2 e resteremo su questi livelli almeno fino alla fine del 2014. L’unico paese che desidera ufficialmente l’inflazione è il Giappone ma qui, paradossalmente, il mercato ha già smesso di credere che il governo riuscirà davvero a fare crescere i prezzi. L’inflazione che preoccupa i bond lascia indifferente l’oro, che è invece in bear market per palese assenza dell’inflazione medesima. Ancora più suggestive sono le realtà parallele in cui fluttuano, nella testa dei mercati, le materie prime. Per i bond dei paesi sviluppati devono essere evidentemente in rialzo (considerando le loro paure verso l’accelerazione delle economie e l’inflazione). I bond dei paesi emergenti, venduti in questo periodo a piene mani, sono invece convintissimi che le materie prime siano in un tragico ribasso.

Se la Cina rallenta, si ragiona, chi mai comprerà più il minerale di ferro brasiliano, il rame cileno o il petrolio russo? Il fatto che ci siano paesi emergenti che le materie prime non le esportano ma le comprano non turba i venditori di bond. Se sono emergenti si vendono e basta. Se però si va a guardare come si comportano le materie prime vere, quelle che si toccano o si mangiano, si vede che non stanno andando da nessuna parte. L’indice Crb delle materie prime (che ne comprende 22) è a 477. All’inizio del 2013 era a 484 e un anno fa a quest’epoca era, guarda guarda, esattamente a 477. Bear market? Di questa esuberanza prossima ventura delle economie (quella che per i bond dovrebbe indurre le banche centrali ad alzare precipitosamente i tassi) non si vede traccia nelle borse che arretrano. Circolano bizzarrie come il presagio di Hindenburg, un concetto dell’analisi tecnica che lancia l’allarme crash quando ci sono contemporaneamente molti titoli che salgono e molti altri che scendono, e si ipotizzano scenari infausti.

Chissà, tutto può essere, ma che un mercato azionario vada in crash con un’inflazione in discesa e un’economia prevista in accelerazione non capita spesso. Un altro curioso strabismo di questa fase riguarda l’Europa. Vendere Btp e Bonos è molto di moda, anche per i rischi legati alla nota vicenda della Corte costituzionale di Karlsruhe, ma l’euro va invece comprato a piene mani, anche se nessuno spiega bene perché. Da Karlsruhe, per inciso, la sentenza arriverà dopo le elezioni di fine settembre e forse addirittura l’anno prossimo. La Merkel, come sempre, gioca su due tavoli. Dichiara il suo appoggio alla Bce e poi manda il fido Weidmann a testimoniare contro Draghi e il suo sostegno (virtuale ma efficace) dei titoli italiani e spagnoli. Pare proprio di capire che l’ottimo, per la Merkel, consista anche questa volta nel salvare l’euro da una parte e avere però sempre a disposizione dall’altra uno strumento per tenere sotto pressione Roma e Madrid e conquistarsi il consenso dell’elettorato euroscettico.

In questa babele di contraddizioni in cui stanno precipitando i mercati l’unico filo rosso da seguire per provare a capire quello che succede non si trova nella realtà economica sottostante bensì negli squilibri da posizionamento che i trend di questi dieci ultimi mesi (ma si potrebbe anche dire di questi quattro anni) hanno creato nei portafogli. Che sia logico e sensato o meno, sta scendendo tutto quello che era salito e viceversa. Il dollaro, in particolare, piace a tutti, ma scende proprio perché il lungo dollaro corto euro era diventato uno dei trade più affollati.

Quella in corso, in pratica, è la tipica correzione di posizioni sovraccariche. In questi casi, quando cioè tutti gli strumenti correggono insieme, è normale perdere su tutta la linea. Le perdite su molti fronti, a loro volta, inducono a ridurre anche le posizioni in cui si continua a credere. È per questo che, come si usa dire in questi giorni, la correzione va rispettata. Non va, cioè, presa sottogamba e va invece lasciata sfogare. Lo sfogo non si esaurisce generalmente in una fase di due-tre settimane come quella che stiamo vivendo ma prevede recuperi anche significativi e successive ricadute. Chi è molto esposto non dovrà farsi tentare dai prezzi in caduta e dovrà invece alleggerire sui rimbalzi. Chi è mediamente pesato potrà fare trading. Chi è poco pesato avrà quest’estate e nell’autunno buone opportunità da sfruttare. Dopo la prima fase di ribassi generalizzati, nelle prossime settimane vedremo mercati più selettivi e rotazioni frequenti. I Treasuries, che sono stati i primi a scendere in questa gamba di ribasso, si sono già fermati e non hanno molto da temere nei prossimi due-tre mesi e forse fino a fine anno. Le borse, dal canto loro, dopo questa prima correzione dovranno abituarsi al nuovo paradigma, quello per cui una notizia buona è buona e una cattiva è cattiva. Verrà cioè gradualmente abbandonato il paradigma paradossale e perverso in vigore fino a due settimane fa, quello per cui una notizia buona era buona e una cattiva era buona lo stesso, perché significava un prolungamento del Quantitative easing.

Quello che vedremo nei prossimi mesi sarà un processo di svezzamento di mercati che dovranno imparare a staccarsi dal latte materno delle banche centrali per cominciare a camminare con le loro gambe. È tutto fisiologico anche se, nel breve termine, può apparire leggermente traumatico. Le banche centrali, dal canto loro, avranno tutto l’interesse a rendere il processo graduale e il meno doloroso possibile.

Verso la fine dell’anno, con i mercati ripuliti dagli eccessi, inizieremo a guardare al 2014. L’anno prossimo apparirà allora nel suo aspetto più positivo ovvero la fine praticamente contemporanea, in Europa e in America, dell’aumento della pressione fiscale. Questo regalerà un punto di crescita al Pil delle due aree. L’Asia, dal canto suo, vedrà i benefici del grande Qe giapponese. Anche la velocità del rialzo di borsa, nei prossimi due anni, sarà inferiore a quella che abbiamo visto negli scorsi due, lo spazio per nuovi massimi resta intatto.

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