Alla luce delle ultime decisioni e dietrofront delle banche centrali mondiali, l’anno dovrebbe essere favorevole per il mercato del reddito fisso, “ma gli investitori si trovano a camminare sul filo del rasoio e devono operare una distinzione tra le strategie obbligazionarie”.
A scriverlo è Gene Tannuzzo, Vice responsabile reddito fisso globale di Columbia Threadneedle Investments, il quale sottolinea che in appena 12 mesi, i mercati sono passati dal prevedere un aumento dei tassi all’aspettarsi una loro diminuzione.
“L’anno scorso di questi tempi regnava un clima di ottimismo”, dice. “Molti economisti ritenevano che le principali economie mondiali fossero destinate a un periodo di crescita globale sincronizzata. Oggi, invece, ci si attende un deciso rallentamento“.
“Nell’aprile 2018 il Fondo monetario internazionale (FMI) prevedeva che nel 2019 l’economia mondiale avrebbe registrato una crescita del 3,9%, ma nel corso di questo mese ha ridotto tale proiezione al 3,3%. Secondo l’FMI, nella seconda metà dello scorso anno il tasso di espansione globale è sceso al 3,2% dal 3,8% del primo semestre”.
“Non si scorgono ancora indicazioni convincenti di una stabilizzazione del rallentamento in Cina. Intanto Argentina e Turchia, che avevano chiuso il 2017 all’insegna di una robusta espansione, sono scivolate in recessione e costituiscono motivo di grave apprensione“.
“Anche nell’Eurozona si osservano segnali preoccupanti. L’economia italiana è già interessata da una fase recessiva e quella tedesca è pericolosamente vicina a entrarvi. Un anno fa alcuni economisti esprimevano timori riguardo a uno stallo della crescita dell’eurozona, dopo la solida espansione del 2,3% registrata nel 2017, la migliore in un decennio. In pochi, tuttavia, prevedevano qualcosa di simile a una recessione, specialmente in Germania, la locomotiva d’Europa“.
“A causa di questo deterioramento del quadro generale, le principali banche centrali mondiali sono state costrette cambiare orientamento. In effetti, negli ultimi 12 mesi hanno fatto dietrofront”.
Un anno fa la Federal Reserve aveva avviato un ciclo di inasprimento che sembrava destinato a proseguire per qualche tempo. Alla fine dello scorso anno la Fed prevedeva ancora due rialzi di un quarto di punto nel corso del 2019. Oggi, per contro, prevede tassi immutati per quest’anno e un solo aumento nel 2020.
Analogamente, un anno fa molti economisti si aspettavano che la Banca centrale europea sarebbe oggi stata in procinto di alzare i tassi. Invece il mese scorso l’istituto di Francoforte ha riavviato le sue operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine (TLTRO), indicando che non aumenterà i tassi prima del 2020.
Inoltre, molte banche centrali dei mercati emergenti stanno tagliando i tassi in una brusca inversione di tendenza rispetto al 2018.
Aspettative mutate
“Le autorità monetarie si sono dunque rese protagoniste di un deciso cambiamento di rotta. Quindi, se siete in attesa del prossimo ciclo di inasprimento globale, non trattenete il fiato“.
Questo mutamento globale, secondo il manager, “era stato trainato dalla Fed, che aveva fatto da apripista alle principali banche centrali mondiali. In assenza di un rialzo dei tassi nel corso di quest’anno, nel 2020 la Federal Reserve e gli altri grandi istituti di emissione, come la Bank of England, la BCE e la Bank of Japan, dovrebbero evitare ulteriori inasprimenti“.
Pertanto, “il prossimo ciclo di politiche restrittive a livello globale – che era all’orizzonte un anno fa – sembra adesso rinviato di almeno 12-18 mesi. Ma anche questo non è certo”.
“Ciò che è chiaro è che le banche centrali hanno sempre maggiori difficoltà ad assolvere al compito di controllare l’inflazione. Consideriamo la Fed e la sua capacità di mantenere l’inflazione di fondo (core) in linea con il target del 2%. L’analisi dimostra che nel corso degli anni ‘90 la banca centrale statunitense ha conseguito questo obiettivo d’inflazione nel 69% dei casi. Negli anni 2000 il target d’inflazione è stato rispettato nel 43% dei casi. Ma negli ultimi 10 anni, sulla scia della crisi finanziaria, la Fed ha raggiunto l’obiettivo d’inflazione core solo nel 5% dei casi” (Figura 1).
Fattori strutturali mantengono i prezzi contenuti
“Che cosa succede dunque? Questa difficoltà nel controllare l’inflazione suggerisce la presenza di alcuni fattori strutturali che mantengono i prezzi contenuti. Uno di questi è l’alto livello di indebitamento”.
A partire dalla crisi finanziaria si è registrato un continuo aumento dei livelli di debito – sia pubblico che privato – in quanto “i prenditori hanno approfittato a piene mani del basso costo del denaro. Chiaramente l’eccesso d’indebitamento incide in modo negativo sulla spesa e quindi sull’inflazione“.
“Un altro fattore strutturale è costituito dalle dinamiche demografiche, e soprattutto dalla minore propensione alla spesa degli anziani. L’invecchiamento della popolazione è particolarmente visibile nei paesi europei core, in Giappone e persino in Cina, seguiti a breve distanza dagli Stati Uniti”.
“A offuscare il quadro”, conclude Tannuzzo, “contribuisce anche l’azione di stimolo senza precedenti esercitata tramite i programmi di quantitative easing (QE)programmi di quantitative easing (QE)” (Figura 2).