C’era una volta un’azienda che andava bene e come lei ve ne erano tante altre. I risultati erano così positivi che produceva tanta di quella cassa che poteva fare investimenti senza indebitarsi. Questi erano motivati da una chiara visione del mercato e come risultato contribuivano a far andare ancora meglio l’azienda, permetterle di fare ulteriori investimenti e così via.
Quanto avrebbe potuto durare questo ciclo positivo? Cosa sarebbe accaduto alla fine?
La risposta alla storiella, che invece è la realtà, ce la fornisce, per gli USA, la recente notizia sul gigantesco riacquisto di azioni proprie (shares buybacks) effettuato dalle aziende americane quotate in borsa lo scorso anno: più di 806 miliardi di dollari, il maggior valore in assoluto di sempre.
Una prima spiegazione del fenomeno potrebbe essere il taglio di tasse del governo Trump che però era finalizzato all’incentivo degli investimenti. Il risultato la dice lunga sulle capacità dell’attuale presidente USA di far accadere le cose, già acclarato in altre circostanze, e su quelle, più in generale, di un sistema politico che voglia “governare” un altro sistema, in questo caso quello economico, dispiegando misure finalizzate ad uno specifico risultato (che quasi mai si ottengono del tutto e che generano numerosi effetti “collaterali”).
Un’altra spiegazione può derivare dal ben noto egoismo dei manager di quelle aziende che, privilegiando il riacquisto azioni anche rispetto al pagamento dei dividendi, tendono ad innalzare abbastanza artificialmente il prezzo delle azioni e ad averne un riflesso positivo sulle proprie stock options di cui sono abbondantemente dotati.
Purtroppo però col perdurare del fenomeno, il declino degli investimenti delle grandi aziende americane non è una novità di oggi, emerge una spiegazione ben più drammatica: le aziende non investono perchè non sanno quali investimenti potranno generare il circolo virtuoso della nostra storiella iniziale (che poi era la vera storia di ognuna di quelle aziende).
Da qui discendono due possibili conseguenze: una deludente capacità imprenditoriale della classe manageriale, incapace di fare scelte coraggiose ma rischiose, oppure una fisiologica fine di un modello di sviluppo, basato sulla possibilità di una crescita “lineare” infinita.
Sulla prima ipotesi vi sono molte numerose evidenze, e già da molto tempo. Una per tutte: il maggior acquirente di azioni proprie del 2018 è stata la Apple con ben 101 miliardi di dollari. Non è un caso che, dopo la morte di Jobs, l’azienda sia guidata dall’ex CFO Cook, un direttore amministrativo e finanziario.
Anche la seconda è supportata da fatti preoccupanti. Le maggiori aziende tecnologiche USA (Google, Amazon, Microsoft e Apple) sono ormai da tempo, a guardare i loro bilanci, più holding finanziarie che soggetti industriali. Crescere e prosperare allora non è più questione di investimenti ma di acquisti e vendite speculative di attività finanziarie (fare soldi con i soldi e non con prodotti, servizi, ecc.). Una vera e propria finanziarizzazione dell’industria di successo, ma il fenomeno è presente anche in altri settori, che sceglie questa strada perchè l’attività caratteristica produce più soldi di quelli che le servono.
Purtroppo gli “investimenti” finanziari non innescano processi di sviluppo diffusi (assunzioni, crescite di salari, acquisti di macchinari e servizi presso altre aziende che a loro volto faranno assunzioni, crescite salariali, ecc.) ma solo un aumento delle ricchezza di pochi aumentando quella disuguaglianza che minaccia gli assetti sociali, e anche politici, dell’occidente.
Insomma: sia vicini alla fine dal capitalismo industriale per come lo abbiamo visto finora?
Sembra di sì, e allora è possibile progettare in modo diffuso (non in esclusivo dominio della politica) un nuovo modello di sviluppo al suo posto?