Latina (Roma) – Rispondete al telefono. Se è qualcuno che cerca il proprietario, dite: la fabbrica è occupata, chiami la segreteria sindacale. Un avviso in bacheca avverte che alla Tacconi Sud le cose sono cambiate: da più di trecento giorni diciannove operaie si sono insediate nello stabilimento in cui hanno lavorato per vent’anni, con l’intenzione di non uscirne senza una garanzia per il futuro. Questa storia inizia in un freddo giorno d’inverno in uno dei tanti capannoni lungo la Pontina, la strada che collega Roma al basso Lazio, un tempo piana inospitale di zanzare e paludi, poi bonificata dal fascismo per diventare zona di rapida espansione industriale grazie alla Cassa del Mezzogiorno. Almeno fino agli Anni 90, quando la brusca interruzione dei fondi statali comincia a segnare un lento ma inesorabile declino, che porta al ridimensionamento o alla chiusura di tante aziende piccole e medie e non risparmia colossi come Goodyear e Nexans.
Sorte toccata anche alla Tacconi Sud, piccola azienda tessile di Latina del Gruppo Sarchi. Partita con sessanta dipendenti, tutte donne, nel corso degli anni aveva già dimezzato il personale e ridotto la produzione: ma si sa che a forza di “al lupo, al lupo”, al momento buono non ci crede nessuno. Così, quando lo scorso dicembre, con un telegramma del tutto indifferente al clima natalizio, il proprietario comunica laconico la cessata attività, le operaie reagiscono con sconcerto e indignazione: «La proprietà non si è nemmeno degnata di venire a dircelo di persona, eravamo ridotte a una pratica da sbrigare».
Loro non ci stanno e, qualche settimana dopo, mentre i tecnici stanno già per cambiare i codici d’ingresso del cancello, decidono di non uscire più. Ora sta per arrivare un altro Natale e sono ancora lì, giorno e notte, nonostante la stanchezza, con il timore che stacchino la luce e venga a mancare l’acqua. Non c’è sabato né domenica, non ci sono ferie: chi ha figli piccoli se li porta dietro, mentre i mariti restano a casa a cucinare e fare lavatrici. Sorella minore della Tacconi Nord di Broni, vicino a Pavia, lo stabilimento di Latina col tempo era passato dal fornire abbigliamento militare all’assemblare tende per la Protezione Civile e barriere galleggianti per la tutela delle acque. Lasciate le macchine da cucire, le operaie erano tornate a usare le mani e la forza delle braccia: «Riempivamo i giubbetti antiproiettile. Uno dovrebbe vedere come si fa: le piastre di protezione devono essere infilate a mano. Sulle nocche avevamo la bardatura dei pugili perché il velcro ti graffia la pelle e alla fine della giornata le mani sono rovinate», racconta Rosa Giancola, 44 anni, da venti dipendente della Tacconi. «Negli ultimi tempi avevamo accettato di fare qualunque lavoro. Abbiamo lavato a mano un migliaio di tende della Protezione Civile utilizzate per il primo soccorso dopo il terremoto in Umbria. Tende incrostate di fango, e come kit per la pulizia solo spazzolone, secchio e olio di gomito».
Non è bastato. Nonostante una commessa in corso, Sarchi decide lo stesso di fermare la produzione. Secondo le operaie, per “delocalizzare” la fabbrica in Romania, dove l’imprenditore ha già altre aziende e la manodopera, si sa, costa meno. «A scapito della qualità, ovviamente, perché è chiaro che la specializzazione la devi pagare», chiosa sarcastica Rosa, «sai quante dita mi sono passata da parte a parte con l’ago prima di imparare a cucire? I risultati li vedremo quando i giubbotti non proteggeranno più i soldati: ma tanto in guerra si deve morire, no?».
Rosa è un’operaia specializzata addetta alla macchina da cucire e all’incollaggio e raspatura dei tessuti gommati; alla Tacconi Sud è anche rappresentante sindacale nella Femca Cisl. È lei che, durante una puntata di Annozero sulla precarietà del lavoro nell’Italia berlusconiana, sventola la busta paga di 1050 euro, chiedendo indignata a quale prestazione sessuale corrisponda nel circo delle cortigiane del potere. Dalla rabbia di essere state trattate «come vuoti a perdere», matura in tutte l’idea di occupare, così come la decisione di presentare istanza di fallimento a Vittorio Sarchi, amministratore delegato del Gruppo: «Quando abbiamo annusato che il padrone stava chiudendo bottega senza nemmeno pagarci gli arretrati, l’abbiamo portato in giudizio con i 26mila euro che ci doveva per le pratiche della pensione già avviate».
La prima notte in fabbrica, ricordano, è stata terribile: erano in tre, accampate in sala mensa su dei materassi buttati a terra. «Eravamo preoccupate che arrivasse qualcuno a mandarci via con la forza», racconta Caterina Caiani, 48 anni, «a casa mio figlio non capiva perché io non fossi lì metterlo a letto e piangeva al telefono». Da quel momento niente è stato facile: per sei mesi hanno vissuto senza stipendio e anche la cassa integrazione è arrivata per tutte soltanto a giugno. Nel frattempo hanno tirato avanti con l’aiuto della famiglia, spesso grazie alla pensione dei genitori anziani. «Ci sono stati giorni che avevamo il problema di mettere insieme pane e latte», confida Rosa, «come se non bastasse, alcune fra noi hanno il marito che nello stesso periodo ha perso il lavoro o è anche lui in cassa».
È lei che informa degli sviluppi della situazione con il suo diario su Facebook, ancora lei che incita le compagne quando si scoraggiano. «Qua dentro diamo fastidio, sono costretti a prenderci in considerazione; invece, se fossimo tornate a casa a chi sarebbe importato di come campiamo con 700 euro?». Rosa ha le idee chiare: «La gente non ha ancora capito che se delle garantite come noi, tutte assunte a tempo indeterminato, sono ridotte a un anno di occupazione per darsi una speranza di futuro, significa che questo paese non funziona più». Ma se non è mancata la solidarietà degli altri lavoratori, le operaie non hanno ricevuto altrettanta attenzione da Stato e sindacati. «Le istituzioni non hanno rispetto per l’occupazione femminile», sottolineano, «perché l’idea di fondo è che se una donna lavora è un lusso, mentre per gli uomini è un diritto. Per noi lavorare significa indipendenza e possibilità di scegliere. E invece quello che ci sentiamo dire è che possiamo farne a meno perché tanto abbiamo un marito che pensa a noi».
È un dato di fatto, però, che la loro determinazione ha fatto scuola: sono in tanti a guardare con ammirazione al coraggio delle operaie della Tacconi e qualcuno prova a seguirne l’esempio. Il Sidis di Latina ha iniziato un presidio interno e non è certo l’unico nella zona. Se poi si allarga lo sguardo a tutto il territorio nazionale, si vede chiaramente che l’occupazione della fabbrica, strumento spesso considerato desueto anche dai sindacati, sta invece tornando attuale. Lo testimonia bene L’isola dei Cassintegrati (www.isoladeicassintegrati.com), che da un paio d’anni monitora le esperienze di ribellione alla crisi, a partire dall’occupazione del carcere dell’Asinara da parte dei lavoratori di Porto Torres. Ormai è sempre Rosa, che non ha figli, a passare tutte le notti in fabbrica. «All’inizio mi svegliavo e non capivo dove fossi», ricorda. Adesso durante le lunghe sere solitarie studia: si è iscritta a Scienze della Formazione, vuole laurearsi in Sviluppo delle risorse umane. Anche se i mesi di fatica sulle spalle cominciano a pesare: «Mi sento come una detenuta in libertà vigilata», si lamenta, «costretta a tornare in carcere al tramonto».
L’occupazione ha cambiato radicalmente i ritmi della vita quotidiana, rimettendo in discussione i ruoli all’interno della famiglia: «I nostri compagni per fortuna ci sostengono, occupandosi della casa e dei figli quando non ci siamo; senza di loro non ce l’avremmo fatta a resistere tanto», riconosce Silvana Romano, 38 anni. Silvana durante i turni al presidio porta sempre con sé le figlie, Angelica di 8 anni e Gaia di 3: «All’inizio erano un po’ smarrite, soprattutto d’estate, quando tutti vanno al mare e loro invece erano costrette a stare qui dentro con me, ma poi si sono abituate». Nel fine settimana spesso si ritrovano tutti nel piccolo alloggio un tempo destinato al direttore di produzione e oggi quartier generale dell’occupazione. Si mangia insieme e si discute delle ultime novità; c’è chi fa la maglia, chi legge, le bimbe giocano sul pavimento in mezzo ai discorsi dei grandi. Sulle pareti, fra messaggi di incoraggiamento, disegni delle bambine e ritagli di giornale, spicca il sorriso ammiccante di George Clooney, qui prestato a sostegno della lotta. Ernesto, il marito di Antonella Marano, scherza (ma nemmeno troppo): «Ho dovuto imparare a farmi una pasta e a lavarmi i vestiti». Quello di Anna Porcelli, invece, è venuto più volte a togliere le erbacce col falcetto perché il cancello d’ingresso non si apriva più. La fabbrica, in una parola, è casa loro; come dice Caterina, hanno occupato «spinte dalla gelosia, perché nessuno ce la doveva toccare». Tengono pulito e in ordine, soprattutto vigilano sul materiale rimasto in magazzino: «Quando l’avvocato di parte voleva venire a controllare le condizioni dello stabile», dice Rosa, «gli ho risposto che l’unico atto di vandalismo che avevamo compiuto era stato lavare per terra».
In primavera, a un tratto è comparso un imprenditore interessato a rilevare l’azienda; per un momento sembrava la via d’uscita tanto attesa, ma si è rivelata subito impraticabile per i troppi debiti della gestione precedente con l’erario. Sfumata così la speranza di un concordato fallimentare, ora si aspetta la prossima udienza del 15 dicembre, che probabilmente sancirà il fallimento della Tacconi e la conseguente fine del presidio. Ma le operaie non si arrendono e hanno già pronta una proposta per il curatore fallimentare: costruire un impianto fotovoltaico sul tetto del capannone per sfruttare l’energia solare.
Rimasta sola, Rosa si prepara per l’ennesima notte nello stabilimento vuoto. «Sai perché non si parla delle occupazioni delle fabbriche?», conclude, lo sguardo che si perde sulla Pontina intasata dal traffico del rientro della domenica sera. «Perché sono uno schiaffo morale agli imprenditori, che sono convinti di sapere fare il loro mestiere e invece hanno perso il senso del lavoro».
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