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Ricercatore emigrato scrive a Napolitano: “legge Stabilità creerà esercito di precari”

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ROMA (WSI) – Le modifiche sulla ricerca che prevede la Legge di Stabilità mandano un “pessimo segnale per i più giovani” e rischiano di creare un esercito di precari. A dirlo è un ricercatore 32enne emigrato all’estero, in Inghilterra.

Secondo Cosimo Lacava, l’annullamento del principio secondo cui bisogna pensare al futuro e non solo al presente della carriera dei ricercatori universitari, finirà per avvantaggiare chi un posto stabile ce l’ha già e ridurre il capitale umano potenziale in uno dei settori chiave per sperare di alimentare l’innovazione e la crescita dell’Italia.

L’abolizione di quel principio, secondo Lacava, “rappresenterebbe una scelta miope e insensata perché non guarderebbe al futuro, ma solo al presente, peggiorando un quadro già compromesso, con il rischio di ridurre il capitale umano futuro della Ricerca Italiana”.

Sarebbe una scelta miope e insensata, che “darebbe l’avallo a quella politica universitaria incline a premiare chi sia già immesso stabilmente in ruolo”.

Di seguito riportiamo la lettera integrale.

Egregio Presidente della Repubblica,

Il mio nome è Cosimo Lacava, ho trentadue anni, il mio mestiere è fare ricerca, nell’ambito dell’optoelettronica per le comunicazioni in fibra ottica. Le scrivo questa lettera dopo aver appreso di alcune delle misure che il Governo attuale intende portare avanti riguardo l’Università e la Ricerca. In particolare mi riferisco alla norma prevista dall’art. 28, comma 29 della Legge di Stabilità in discussione in Parlamento in questi giorni.

Tale norma intenderebbe cancellare quanto previsto dall’art. 4 del decreto legislativo 49/12, che introduceva un principio sacrosanto: e cioè che si dovesse pensare anche al futuro e non solo al presente della ricerca e della didattica delle università; e che le risorse disponibili dovessero essere equamente distribuite tra le progressioni di carriera (legittime) e le immissioni in ruolo di giovani ricercatori del tipo b (a norma della legge 240/10), l’unica figura con una prospettiva certa e chiara, dopo tre anni di lavoro di ricerca di qualità, certificato dall’ottenimento dell’abilitazione nazionale da professore associato, di poter entrare a far parte dell’organico stabile dell’università.

L’abolizione di quel principio, Presidente, rappresenterebbe una scelta miope e insensata perché non guarderebbe al futuro, ma solo al presente, peggiorando un quadro già compromesso, con il rischio di ridurre il capitale umano futuro della Ricerca Italiana; quel capitale umano che dovrà innovare e confrontarsi con le altre realtà accademiche europee e mondiali; una scelta che darebbe l’avallo a quella politica universitaria incline a premiare chi sia già immesso stabilmente in ruolo. Anche dal punto di vista simbolico, si tratterebbe di un pessimo segnale per i più giovani.

Le chiederei pertanto, sapendo dell’attenzione con cui ha da sempre guardato al sistema universitario e al suo futuro, di fare quanto nelle sue possibilità istituzionali e politiche per scongiurare quella modifica normativa che la Legge di Stabilità vuole introdurre.

Le scrivo anche, Presidente, per raccontarle la mia storia, una storia, sono sicuro, identica a tante altre, ma che forse vale la pena di essere raccontata, per evitare che tutto diventi normale, accettato. La mia storia è semplice: sono nato a Grottaglie, provincia di Taranto. Mio padre ha lavorato per quaranta anni all’Ilva di Taranto. Grazie ai suoi sacrifici ho studiato Ingegneria Elettronica (Laurea triennale, al Politecnico d Bari) e poi ho deciso di iscrivermi alla laurea magistrale in Ingegneria Elettronica a Pavia, Università piena di eccellenze nel campo che più mi interessava, appunto l’optoelettronica.

Ho concluso il mio percorso a Pavia dopo due anni e, grazie all’entusiasmo di alcuni dei docenti che mi hanno seguito, ho deciso che nella vita avrei voluto fare ricerca, che avrei voluto avere il loro stesso entusiasmo, e che mi sarebbe piaciuto, in futuro, “contagiare” altri studenti come me.

Ho deciso allora di iscrivermi al concorso di dottorato, di cui sono risultato vincitore con borsa. E’ stato uno dei momenti più belli della mia carriera di studio, perché in quel momento ho capito che “era una cosa possibile” e che la ricerca italiana, in qualche modo, aveva deciso di investire risorse su di me. Circa un anno fa ho concluso il dottorato. Sono stati tre anni intensi, in cui chi mi ha seguito mi ha letteralmente “insegnato un mestiere” da zero, quello da ricercatore.

In questi anni non sono peraltro riuscito a ignorare l’altra grande passione della vita: fare Politica. Ho sempre fatto Politica, fuori dall’Università, e dentro l’Università; penso che fare Politica significhi cercare di risolvere problemi, semplicemente. Quando faccio politica mi sento al posto giusto, nel momento giusto, perché mi rendo conto che ci sono dei problemi da risolvere, e in qualche modo la passione mi aiuta a capire qual è la soluzione. Solo chi fa questa cosa ogni giorno sa cosa intendo dire, e Lei, Presidente, sono sicuro che capisce ciò che intendo.

Dopo un anno di post dottorato ho dovuto abbandonare tutto questo. Ho dovuto lasciare il mio lavoro in Italia perché mi sono reso conto (e non è difficile arrivare a questa conclusione) che non esistevano (e non esistono) prospettive qui per chi vuole fare il mio lavoro. Sono dovuto andare all’estero, abbandonando un potenziale gruppo di ricerca in crescita; e ciò nel mentre il nostro Governo vuole varare norme come quella di cui le scrivevo in principio, che vanno nella direzione sbagliata, non guardano al futuro, e che, poiché ingiuste, abbattono il morale di quanti, tra i più giovani, vorrebbero e vogliono continuare a fare ricerca nel nostro amato Paese.

Oggi nell’Università italiana si resiste, Presidente, nulla più: si cerca (e in diversi casi, peraltro si riesce, al prezzo di enormi sacrifici!) strenuamente di fare ricerca di qualità con pochi fondi (e quindi poco personale) e pochi mezzi.

So già cosa potrebbero dire alcuni leggendo questa lettera: i soldi vanno trovati altrove, fondi Europei, ecc. Tutto vero, ma questo, almeno dal dipartimento da cui arrivo io, viene fatto, e anche bene. Non si può fare di più perché continuando a tagliare fondi si taglia la base su cui noi ricercatori dobbiamo poi costruire il resto, e trovare poi fondi esterni. E’ un concetto semplice: se non esiste la base, non si può costruire quello che viene dopo.

Per non parlare dell’incredibile vicenda dei progetti Sir, banditi in febbraio, scaduti a marzo (un mese per scrivere un progetto?) e di cui non si conoscono gli esiti a oggi (nel mezzo, una storia fatta d’inefficienza e incompetenza, ma non mi dilungo oltre). Qualcun altro dirà che è bene fare “un’esperienza all’estero”; non posso che essere d’accordo a patto che ci sia la possibilità di ritornare e che l’Italia ospiti altri ricercatori da altre parti del mondo per arricchirsi anch’essa. E’ cosi in questo momento? Assolutamente no.

In questo momento io vivo a Salisbury, una cittadina inglese del Wiltshire. Ogni mattina alle 7.30 prendo un treno che mi porta a Southampton, dove lavoro. La mia ricerca è d’interesse internazionale e potrebbe portare, nei prossimi anni, tante innovazioni nel campo delle comunicazioni a banda larga che, sicuramente, saranno anche d’interesse primario per il nostro Paese.

Non so quantificare con precisione quanto lo Stato abbia speso per la mia formazione: so che il costo per lo Stato della formazione di un dottore di ricerca, dalla scuola primaria fino al conseguimento del titolo di Dottore di Ricerca, viene stimato in 500.000 euro. Oggi un altro Paese “trae” vantaggio da questo, senza nulla in cambio. E le statistiche di questi ultimi anni, che non le riporto, Presidente, perché immagino le conosca, raccontano di un vero e proprio esodo verso l’estero di tanti, tantissimi giovani come me. Questo non è normale, e vorrei che qualcuno se ne accorgesse.

Infine, ci terrei ad aggiungere, Presidente, che questa non è una lettera per comunicare “quanto sto male”; al contrario, io sto benissimo, mi sento “un privilegiato” perché faccio un lavoro che mi piace, che mi appassiona, lo stipendio che ricevo è giustamente proporzionato al lavoro assegnatomi e le prospettive che ho sono promettenti. Vivo bene e sono felice, vorrei però poter decidere di farlo nel mio e per il mio Paese.

In questi momenti mi rendo conto che anche contribuire al bene comune del nostro Paese sta diventando un privilegio per noi Italiani; e mi creda, Presidente, questo fa male, molto male. Vorrei, al contrario, poter tornare, e tornare ad investire una consistente parte del mio tempo libero in impegno civile e politico, per lasciare un Paese migliore alle generazioni che seguiranno. Il resto del tempo vorrei semplicemente lavorare, e fare il mio lavoro, attraverso cui, ugualmente, contribuire al bene comune e dimostrare anche che l’investimento fatto su di me è stato un buon investimento. Con un cordiale saluto,

Southampton, 27/11/2014

Fonte: La Repubblica

(DaC)