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RICUCCI, LA STORIA MISTERIOSA
DEL PRIMO MATTONE

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Il contenuto di questo articolo, uscito il 10 giugno e ripubblicato per gentile concessione de Il Sole 24 Ore, esprime esclusivamente il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) – Stefano Ricucci, definito «star emergente» del mondo immobiliar-finanziario italiano, ha raggiunto le prime pagine dei giornali mantenendo però sempre un alone di mistero. Nonostante sia ormai membro di punta del salotto più buono d’Italia, quello di Rcs Media Group, molti ancora continuano a chiedersi come abbia fatto o dove abbia trovato tutti i soldi che manovra. Da anni si scrive, o si lascia intendere, che agisca per conto di finanziatori occulti. Da un’inchiesta del Sole-24 Ore, intesa a trovare risposte a queste domande, risulta che la storia imprenditoriale di Ricucci è piuttosto segnata negli anni iniziali dalla difficoltà a reperire liquidità, e anche per questo abbonda di operazioni di favore o di incerta natura. Ma soprattutto sono i numeri di Ricucci che non tornano.

I suoi numeri subiscono da sempre moltiplicazioni sorprendenti. Risultato: il patrimonio dichiarato appare decisamente superiore rispetto a quello documentato. In altre parole Stefano Ricucci è molto meno ricco di quanto non ami affermare. Perché secondo i nostri calcoli i suoi immobili rappresentano circa un decimo del patrimonio di 2 miliardi di euro da lui dichiarato ai quattro venti e le sue partecipazioni azionarie sono ad altissima leva, cioè finanziate con i soldi di banche che le hanno in pegno.
Insomma il segreto di Ricucci è che è un maestro del bluff.

I conti

Proseguendo il lavoro iniziato dal nostro giornale con l’articolo del 5 maggio scorso a firma di Gianni Dragoni, abbiamo deciso di fare i conti in tasca al gruppo Magiste. Non si può non cominciare dal patrimonio immobiliare. Perché Ricucci stesso ama definirsi un immobiliarista. E perché sin dagli albori della sua carriera Ricucci ha sempre usato gli immobili come leva finanziaria. Ma prima una precisazione: invocando la trasparenza, «Il Sole-24 Ore» ha ripetutamente chiesto un’intervista al signor – dottore per i lettori di San Marino (vedi box in basso) – Ricucci, al fine di ricostruire con il suo apporto la sua brillante ascesa. Per due mesi ci è stata negata. Così come ci è stato negato un curriculum scritto di sua mano che ricostruisse le pietre miliari della sua carriera.

Come ormai è noto, la sua avventura è cominciata in un paesino della periferia romana, Zagarolo, prima con un piccolo studio odontotecnico, poi con un appartamento, quindi due, tre e così via. Fin quando non è arrivato a fare il suo primo miliardo. Tutto nel giro di pochissimi anni.
Ricucci ha pubblicamente dichiarato: «A 23 anni fatturavo già 6 miliardi». Forse, ma un fatto è certo: le sue dichiarazioni dei redditi non sono quelle di un miliardario. Nel 1986, a 24 anni, dichiarò 12 milioni di lire di imponibile, nel 1990 42 milioni, e nel 1995, già trentaduenne, il suo reddito scese addirittura a meno di 5 milioni. Di vecchie lire. Soltanto nel 1999 superò seppur a malapena la barriera dei 100 milioni.

Che per Ricucci quelli fossero anni duri lo testimonia anche il fatto che non una, ma due delle maggiori banche attive nel mercato edile della provincia romana – Credito Italiano e Cariplo – cessarono di operare con lui. Anche perché la centrale rischi della Banca d’Italia, interrogata, aveva segnalato frequenti aperture e chiusure di conti su banche diverse e senza stabilità di rapporti. Già allora risultò inoltre chiaro a quelle banche che nonostante la sua società avesse come oggetto sociale la costruzione edilizia, in realtà costruiva ben poco svolgendo invece attività finanziarie.
L’istituto che invece lo sosteneva anche in quel periodo incerto, con affidamenti di svariati miliardi, era la Banca Agricola Mantovana, una vera e propria anomalia poiché non aveva neppure una filiale a Roma. Comunque sia, da allora la Bam, che fino al 1999 aveva Roberto Colaninno come azionista e consigliere e fu poi assorbita dal Monte dei Paschi, è sempre rimasta vicina a Ricucci, accompagnandolo in molte delle sue avventure finanziarie, dalla Meliorbanca alla Hopa.

Il rapporto con la legge

Nella sua biografia pubblica si nota l’assenza di ogni riferimento alla passata attività di odontotecnico. Due pazienti lo denunciarono, una nel 1986 per truffa e l’altra nel 1989 per esercizio abusivo della professione dentistica, sostenendo che sarebbe intervenuto in modo sbagliato spacciandosi per dentista. Secondo gli accertamenti svolti dalla polizia giudiziaria nel secondo caso, «nel settembre 1988 la denunciante a seguito di una iniezione praticatagli dal Ricucci veniva colta da malessere e precisamente da semi-paresi dell’occhio sinistro, della guancia e del collo». I fatti sono remoti e non risulta che siano mai stati vagliati da un giudice anche perché nel 1989 è intervenuta l’amnistia.
Cosa non successa in un’altra vicenda giudiziaria avvenuta in giorni più recenti. Il 18 giugno 2002, quando la Magiste dichiarava già un patrimonio da 600 milioni di euro e Ricucci era il primo azionista di Banca Popolare di Lodi e aveva partecipazioni sostanziose anche nell’Hopa di Emilio Gnutti , è stato arrestato per resistenza a pubblico ufficiale per il quale ha patteggiato quattro mesi di reclusione con la pena sospesa.

Il bluff degli immobili

Ma veniamo al suo patrimonio immobiliare attuale: nell’elenco del portafoglio del gruppo Magiste, unico documento significativo fornitoci dal suo ufficio per le relazioni esterne, sono citate 31 proprietà. Di queste, 25 hanno un valore commerciale medio dichiarato di 4,1 milioni di euro, per un totale di 103 milioni. Dai numeri forniti dalla stessa Magiste risulta quindi che l’intero patrimonio immobiliare del gruppo, a cui è attribuito un valore di 560 milioni di euro, si basa soprattutto su 6 immobili. «Il Sole-24 Ore» ha perciò focalizzato la propria attenzione su questi. E ha concluso che i valori dichiarati sono altamente inflazionati.

L’immobile di Via Silvio Pellico 4, a Milano, è stato valutato 60 milioni di euro nonostante sia stato comprato nel marzo 2004 per 36 milioni grazie a un leasing della banca più amica di Ricucci, la Banca Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani.

L’immobile di Via Ferdinando di Savoia 1 e quello di via Lima 51-53 a Roma, sono valutati 100 milioni di euro, nonostante siano stati (ri)acquistati da Ricucci dalla Bipielle Investimenti il 29 dicembre scorso all’interno di un pacchetto pagato 68,2 milioni che conteneva altre sette unità immobiliari.
Villa Feltrinelli, bellissima proprietà sul Monte Argentario, dagli atti della Magiste risulta valutata 70 milioni di euro, ma il valore commerciale attribuitogli nella zona non supera i 20 milioni (e il sindaco Nazareno Alocci ha confermato al Sole-24 Ore che gli amministratori locali non permetteranno mai alcuna speculazione edilizia che potrebbe giustificare un aumento del valore della proprietà fino a cifre anche solo vicine a quella dichiarata).

La vicenda del palazzo di Via Borromei 5, a Milano, valutato da Magiste 120 milioni di euro, ha poi una storia tutta particolare. Fino al 2004 è stato il quartier generale milanese della Meliorbanca, di cui Ricucci deteneva circa il 2%. Il 30 giugno 2004 una controllata della banca ha ceduto il suo contratto di leasing sull’immobile a Magiste, con la quale ha contestualmente firmato un contratto di affitto. «Il palazzo è stato valutato 84 milioni, di cui 40 erano il residuo del debito e 43,9 il corrispettivo da noi incassato per la cessione del contratto di leasing» ci ha spiegato Massimiliano Naef, amministratore delegato di Meliorbanca.

Con questa entrata straordinaria, Meliorbanca ha potuto ridurre le perdite a bilancio per l’esercizio 2004 a 30,8 milioni di euro. Quello che però Naef non ha detto è che a finanziare l’operazione è stata Meliorbanca stessa. Non solo: il costo del leasing è inferiore alla rendita dell’affitto. In altre parole, Meliorbanca ha ceduto a un suo azionista un immobile che rende più di quello che sta costando. Un bel regalo, oltre che un esercizio di cosmetica contabile che ovviamente migliora il bilancio della banca i conti solo in apparenza. Perché i soldi sono entrati da una parte e usciti dall’altra.

Come se non bastasse c’è da notare che Meliorbanca ha successivamente dato a Ricucci finanziamenti per 50 milioni di euro per l’acquisto di azioni Bnl (avute però in pegno di garanzia).

Una vicenda non troppo dissimile, seppur con altri protagonisti, è quella di un palazzo ancora più controverso: quello di Piazza Durante 11 a Milano, acquisito dalla Magiste nel settembre 2004. A detta della Procura di Brescia, l’immobile è stato al centro di una delle più sfacciate truffe ordite da alcuni amministratori della Bipop assieme al costruttore romano Mauro Ardesi, maggiore azionista della banca bresciana che il 30 maggio scorso è stato rinviato a giudizio.
Riassunto in breve: nella primavera 1999 venne costituita una società di facciata – Rovema 2000 Srl – che fece un duplice accordo di leasing e di affitto con il gruppo Bipop-Fineco per il quale avrebbe pagato 12 anni di canoni semestrali di leasing per un totale di 68,6 miliardi di lire mentre avrebbe incassato, nel corso degli stessi 12 anni, canoni di locazione pari a 108 miliardi. Dopo quei 12 anni, con un esborso di appena 11 miliardi, Rovema 2000 avrebbe potuto rilevare il palazzo, pagando così in tutto meno di 80 miliardi un edificio che nel 1999 un perito della Bipop aveva valutato 107 miliardi.

Nel corso della sua indagine, la procura ha scoperto che dietro alla San Paolo Fiduciaria, che risultava formalmente proprietaria di Rovema 2000, si nascondeva lo stesso Mauro Ardesi (alle cui ditte Bipop fece inoltre fare lavori di ristrutturazione per oltre 62 miliardi ritenuti da un perito della banca non necessari.)
Questo accordo, che la procura di Brescia ha dichiarato frutto di reato, è rimasto in essere anche dopo l’acquisizione del gruppo Bipop-Fineco da parte di Capitalia. Il che significa che Rovema 2000 ha continuato per anni a incassare di affitto quasi il doppio di quello che pagava in leasing. Nel settembre 2004, Ardesi ha però passato questa gallina dalle uova d’oro a Ricucci, il quale ha rilevato sia Rovema 2000 che Rebuffone Srl, società di proprietà al 100% di Ardesi, e le ha poi incorporate in Magiste.

I motivi di questa operazione non sono stati a noi spiegati. Anche Ardesi si è infatti rifiutato di parlarci. Abbiamo però notato che nel 1999, anno in cui venne siglato il presunto accordo-truffa tra Rovema 2000 Srl e gruppo Bipop, dalla dichiarazione dei redditi Ricucci risulta aver percepito 9,812 milioni di lire di compensi dalla San Paolo Fiduciaria, la stessa fiduciaria attraverso la quale Ardesi controllava segretamente Rovema 2000. Una coincidenza? Probabile. Rimane il fatto che Ricucci ha tolto le castegne dal fuoco ad Ardesi, perché l’esito sfavorevole del suo processo a Brescia avrebbe potuto anche portare a un’eccezione di nullità del contratto di leasing/affitto per Piazza Durante. Rischio che a questo punto finirebbe col ricadere su Ricucci.

I numeri della finanza

Ma anche sul fronte finanziario «Il Sole-24 Ore» ha trovato operazioni piuttosto anomale e numeri che non quadrano. Cominciamo dai numeri del raid in Borsa che ha sancito il passaggio di Ricucci da illustre sconosciuto a finanziere dal fiuto straordinario: la famosa plusvalenza sul suo investimento in Capitalia.

In svariate occasioni Ricucci ha dichiarato che vendendo la quota da lui accumulata in Capitalia tra l’autunno del 2002 e quello del 2003 ha avuto una plusvalenza di 100 milioni di euro. Ma sul bilancio del 2003 di Magiste International, acquirente delle azioni Capitalia e unica società del gruppo a render pubblici i suoi dati, la plusvalenza dichiarata è di 48.035.658,35 euro.

I rapporti con Gnutti e Fiorani

Il redditizio raid su Capitalia, Ricucci lo ha attuato solo dopo aver fatto ingresso nel mondo della finanza italiana. Cioè dopo essere entrato in modo massiccio in Hopa, una delle protagoniste della madre di tutte le scalate, la conquista di Telecom Italia da parte del duo formato da Roberto Colaninno (vecchio consigliere di Bam, la prima banca a puntare su un Ricucci al quale altre banche negavano fidi) ed Emilio Gnutti. Quell’operazione è significativa non solo per la sua creatività ma perché è emblematica dello stile di Ricucci e dei suoi soci in affari.

Ecco come andò: Magiste fece un accordo con la Fingruppo di Gnutti in base al quale tra il 3 aprile e il 30 novembre 2001 avrebbe comprato 20 milioni di azioni Hopa per un valore di 100 miliardi di lire e azioni Banca Valori per altri 2,3 miliardi, riconoscendo una parcella di consulenza di 7,7 miliardi alla G.P. Finanziaria (sempre del gruppo Gnutti). L’esborso totale era quindi di 110 miliardi di lire. Da parte sua, tra il 5 aprile e il 30 maggio 2001, Fingruppo avrebbe comprato immobili da Magiste per un valore della stessa esatta cifra.

Sui bilanci delle società interessate, l’impatto dell’operazione fu senza dubbio significativo, ma «Il Sole-24 Ore» ha appurato che fu in realtà un affare a finanza zero in cui nessuna delle due parti mise mano al portafoglio. Non solo, fu anche un’operazione a elastico. Era cioè previsto sin dal suo concepimento che venisse azzerata. Entrambe le parti avevano infatti un’opzione put per tornare al precedente stato delle cose. Ricucci aveva un put sui 20 milioni di azioni Hopa che avrebbe potuto esercitare tra il 1° e il 31 dicembre 2004, mentre Gnutti aveva un put sugli immobili acquisiti (qualora fossero rimasti invenduti) negli stessi esatti 31 giorni.
Come in ogni buon affare, la convenienza era reciproca. A Gnutti servivano liquidi da dirottare verso Bell, la holding lussemburghese che in quel momento controllava a fatica Telecom Italia. Ricucci ambiva invece a fare un ingresso alla grande nel mondo della finanza, senza però tirar fuori soldi che non aveva. Il problema era che neppure il suo pacchetto immobiliare aveva un grande valore. Oltre a garage, appartamenti e una palazzina abbandonata da anni, includeva addirittura immobili il cui acquisto era «da perfezionare». Ma siccome l’interesse di entrambi era che le cifre fossero più alte possibili, il valore del pacchetto venne fortemente «gonfiato». Al fine di evitare equivoci o controversie la cosa fu codificata nel contratto stesso, che recita: «Le Parti si danno reciprocamente atto che il prezzo degli Immobili oggetto di opzione è stato determinato su base totalmente convenzionale ed aleatoria e pertanto prescinde dall’effettivo valore che degli immobili stessi potranno avere al momento in cui abbia eventualmente luogo l’esercizio dell’opzione di vendita».

L’operazione non avrebbe però avuto alcun senso se non avesse generato liquidi. A metter quelli fu la solita banca vicina sia a Gnutti che a Ricucci, la Banca Popolare di Lodi di Fiorani. Dopo aver trasferito gli immobili di Ricucci su una ex scatola vuota chiamata Immobiliare il Corso Srl, Gnutti vendette infatti questa società (con tanto di put) al gruppo Bpl. Fu così che dal cilindro finanziario di Fiorani emersero i contanti da uno scambio alla pari senza cash.

L’operazione ebbe poi la sua preannunciata seppur difficoltosa conclusione tre anni dopo, quando Bipielle Investimenti restituì l’Immobiliare Il Corso alla Magiste e Ricucci uscì da Hopa. Nel frattempo però Gnutti aveva fatto enormi plusvalenze con la vendita di Telecom Italia a Tronchetti Provera. E Ricucci era diventato una “star emergente” del firmamento finanziario italiano.
In conclusione, pur volendo puntualizzare che nella sua inchiesta «Il Sole-24 Ore» non ha trovato tracce di denaro di provenienza illecita, resta il fatto che il ritratto emerso non è certamente quello di un finanziere con gli strumenti per conquistare quasi il 20% di Rcs Media Group. Finora le cose gli sono sempre andate bene, anche se molto meno bene di quanto non faccia pensare lui. Ma chi cavalca l’onda speculativa senza avere mezzi propri all’altezza della situazione, è sempre a rischio di caduta. E più alta è l’onda, più violenta è la caduta.

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