Si può considerare il reshoring una piaga per la nostra flilera produttiva? Per il Governo sembrerebbe così, al punto da voler destinare parte delle risorse della Manovra in una serie di agevolazioni a contrasto di questo fenomeno. Parliamo di una serie di agevolazioni per far rientrare capitali e aziende dall’estero, con tanto di penalizzazioni se non mantengono la parola.
Misure che potrebbero distinguersi da quelle in vigore nei paesi Europei, anche se in molti casi la strategia era quella inversa, ovvero di incentivare questo fenomeno. La soluzione sarebbe in una strategia industriale trasversale, che coinvolga gli stati secondo accordi interregionali, così da stimolare, se non il back-shoring, almeno il near-shoring.
Cos’è il reshoring e cosa fa l’Italia contro questo fenomeno
Quando si parla di reshoring si intende la rilocalizzazione, parziale o totale, delle attività produttive in un paese diverso rispetto a quello d’origine. Può venire rilocalizzata l’azienda in un paese attiguo a quello d’origine (nearshoring), oppure in uno ancora più lontano (further-offshoring).
Questo coinvolge sia alcune linee di produzione (selective), sia l’intera produzione o fornitura. Perché le aziende fanno offshoring? In genere per questioni legate alla sostenibilità, o per via di tensioni geopolitiche che rendono difficile fare impresa in un paese rispetto all’altro. Oppure per ridurre semplicemente i costi di servizio.
È un fenomeno gravoso per l’economia italiana e per il fisco: meno aziende in loco, meno lavoratori occupati; e quindi meno tasse versate allo Stato. Secondo quanto riportato dallo studio “Processi di reshoring nella manifattura italiana” di Stefano Elia (Politecnico di Milano), la banca dati UniCLUB MoRe reshoring segnala, su 171 casi, ben 39 casi di reshoring nel settore della “confezione di articoli di abbigliamento“, nonché 26 per “confezione di articoli in pelle e simili“, e così per 20 casi nel settore della “Fabbricazione di apparecchiature elettriche” e “Fabbricazione di macchinari e apparecchiature n.c.a.“. Il grosso delle aziende in reshoring provengono da Veneto, Emilia Romagna, Lombardia, Marche e Piemonte, per la maggior parte dei casi si parla di grandi aziende (dal 41% del Piemone fino al 75% dell’Emilia Romagna).
Non è uno scenario molto ottimista per la buona tenuta della filiera industriale, per questo il Governo Meloni vorrebbe combattere questo fenomeno, e anzi sostenere il backshoring, cioè il rientro. Secondo quanto previsto nella Manovra di Bilancio 2024, chi si trasferisce in Italia avrò diritto ad una serie di agevolazioni fiscali:
- una non concorrenza alla formazione della base imponibile IRPEF e del valore della produzione ai fini dell’IRAP,
- una riduzione del 50% del reddito imponibile derivante dalle attività d’impresa svolte all’estero.
Le agevolazioni si applicano nel periodo d’imposta in cui avviene il trasferimento e per i cinque periodi di imposta successivi. Non sarà cumulabili nel caso si sia beneficiato di agevolazioni fiscali nei 24 mesi antecedenti il loro trasferimento. Oltre a queste, tra i 24 miliardi di euro della Manovra, 50 milioni rifinanzieranno la Nuova Sabatini, per sostenere gli investimenti in beni strumentali effettuati da micro, piccole e medie imprese facilitando l’accesso al credito con tassi di interesse agevolati.
Le misure europee contro il reshoring
Come l’Italia, anche l’Europa vive il fenomeno del reshoring sulla propria pelle. Anche se a volte ci sono stati dei vantaggi, come gli accordi tra Germania-Cina voluti dall’attuale cancelliere Scholz, nonostante l’Europa in sè sia in prima fila per quanto riguarda il reshoring, con il 58% dei casi di reshoring, seguita dagli Stati Uniti (32%) e dal Giappone e Taiwan (8,5%), secondo i dati del Centro Studi Confindustria.
La decisione di sostenere accordi tra paesi di destinazione delle proprie aziende è forse un tentativo di non perdere del tutto il controllo e l’organico della propria filiera. Ma in certi casi si rischia la dipendenza economica, come nel caso della transizione energetica. Senza materie prime, è difficile procedere con la transizione, e nel caso della Germania, “vittima” della sua politica di chiudere le miniere e poi le centrali nucleari, ha dovuto fare marcia indietro e riaprire le miniere per estrarre le materie prime critiche necessarie.
Soluzioni che non combattono il reshoring, perché ogni paese si trova così da solo pur facendo parte di un’Unione. Da qui l’interesse delle istituzioni europee di puntare a strategie come quelle delle “catene interregionali“. Come segnalato da Interreg Europe, tra pandemia e guerre, è necessario diversificare e rafforzare la vulnerabilità delle catene del valore globali. Per questo la Commissione Europea ” […] ha adottato misure per promuoverne lo sviluppo di Catene europee del valore (EVC) nelle industrie strategiche per promuovere l’autonomia industriale europea e la transizione verde.“.
In pratica una serie di politiche e iniziative per sostenere lo sviluppo degli EVC, tra cui gli Interregional Innovation Investments (I3), che puntano proprio sulla promozione e il coinvolgimento del settore privato a queste iniziative. La parola d’ordine contro il reshoring è non solo il backshoring, ma il nearshoring, almeno tra paesi europei.
Quale sarà l’impatto di queste misure?
Riuscire nel backshoring, quindi al rientro delle aziende in Italia o nei paesi d’origine, sarebbe già un successo strepitoso. Come riporta l’analisi del Politecnico di Milano, “Più di 7 imprese su 10 sia in Italia che in Lombardia hanno una propensione ad esportare più del 10% del loro fatturato prodotto.“. Pertanto, cosa potrebbero guadagnarci le imprese dal rientro di capitali e aziende? Forse nel fatto di voler tenere bassi i costi di controllo e coordinamento delle produzioni all’estero, oltre “all’esigenza di produrre in piccoli lotti e per avvantaggiarsi dell’effetto “made in”“.
Non è ancora facile capire se queste misure disposte dal Governo Meloni funzioneranno, o quali impatti avranno. Si sa solo che intanto qualcosa si sta muovendo.
“Al 2021, circa il 30% delle 121 imprese che hanno delocalizzato ha dichiarato di aver già realizzato un cambiamento nella strategia di localizzazione, mentre il restante 55% continua a mantenere inalterata la sua scelta localizzativa.”.
Ad oggi, solo il 16,5% è rientrato in Italia. Il secondo dato migliore rispetto a Francia, e superiore perfino al Regno Unito e alla Germania. La stessa Agenzia ICE segnala inoltre che, laddove non sia fattibile il backshoring, è molto più realistico il near-shoring, sempre però entro i confini europei. E guarda caso nel settore dell’abbigliamento, quello accennato poco sopra in merito ai maggiori casi di reshoring:
“Analizzando il dato settoriale con una prospettiva di tipo longitudinale, si evidenzia che l’unico settore continuamente attivo in termini di operazioni di back/near-shoring è quello dell’Abbigliamento e calzature, che ha registrato almeno un’evidenza in ogni anno nel periodo 2004-2011. Gli altri settori hanno invece mostrato un’attenzione per le strategie di back/near-shoring sostanzialmente a partire dal 2008.”