Come tutte le storie complesse, anche quella delle regole di bilancio europee ha le sue apparenti incongruenze. Quando nel 2011 il debito italiano era al 119,7%, scattò la stagione dell’austerità. Oggi che è al 155,8% l’Europa ha sospeso tutti i vincoli del Patto di Stabilità.
Perché? Le ragioni ci sono e sono molte. Una è sotto gli occhi di tutti: il livello del debito sul Pil non è l’unico fattore che definisce la sua sostenibilità. Eppure, le regole europee introdotte con il Trattato di Maastricht sembrano affermare il contrario: nel 1992 il limite aureo fu fissato al 60% e ancora oggi tutti i Paesi europei sono legalmente vincolati a raggiungere tale livello, quale che sia il loro debito attuale. O meglio, è stato così fino allo scoppio della crisi Covid.
Ma è bene non illudersi: gli interventi della Bce e la sospensione delle regole del Patto di Stabilità fino al 2023 stanno solo momentaneamente allontanando l’attenzione da una scomoda verità. Ossia che l’impatto economico della pandemia condizionerà le scelte di politica fiscale per molti anni a venire. I vincoli di bilancio torneranno, ma, probabilmente, saranno diversi da quelli che abbiamo conosciuto. L’aspettativa dichiarata dalla Commissione europea, infatti, è quella di riformare il Patto di Stabilità in modo da “evitare gli errori del passato”. Ormai è ufficiale: l’austerità non è più nelle grazie di Bruxelles e degli economisti vicini alla Commissione.
Abbiamo parlato anche di questa evoluzione culturale con il professor Massimo Bordignon, ordinario di economia alla Cattolica di Milano e membro dello European Fiscal Board, un gruppo indipendente di tecnici che assiste la Commissione europea proprio in materia fiscale. “Qualcosa è cambiato nell’orientamento generale dell’accademia”, ha affermato Bordignon, “questi mutamenti avvengono in corrispondenza di fatti di grande peso e quando crescenti evidenze empiriche inducono a ritrattare le precedenti posizioni”. La pandemia si candida così a diventare un punto di svolta nell’economia “mainstream” in grado di incidere sul futuro assetto delle regole europee. Attenzione, però: è un cambiamento forzato da problemi ben più grandi dei (veri o presunti) limiti dell’austerità.
L’Europa dopo il Covid-19
Dopo il Covid “la situazione della finanza pubblica sarà assai peggiorata”, afferma il professor Bordignon, “in media il debito dell’Area euro dovrebbe crescere di 17-20 punti sul Pil”. Questo è il primo motivo che spingerà verso un cambiamento delle regole fiscali europee dopo la pandemia. Con un debito più elevato, infatti, aumenta anche “la sensibilità della spesa pubblica dovuta agli interessi rispetto alle variazioni dei tassi di interesse” sul debito, pertanto “il fabbisogno di finanziamento lordo e il rinnovo del debito pubblico rimarranno significativamente più alti rispetto a prima della crisi”, ha affermato il Network of EU Independent Fiscal Institutions, gruppo che include anche l’Ufficio parlamentare di bilancio italiano. In breve: se lo spread dovesse tornare a crescere nei prossimi anni, il suo impatto negativo sulle finanze del Paese sarebbe ancora più forte che in passato.
L’insostenibile regola sul debito
Nell’Europa post-Covid, la prima regola destinata a tramontare sarà quella sul rientro del debito, ovvero:
- Ciascuno stato membro è chiamato a ridurre la parte di debito eccedente il 60% di 1/20 ogni anno nella media del triennio.
Più il debito di partenza è elevato, tante più risorse lo Stato dovrà sottrarre ogni anno dall’economia per ridurlo nei tempi e nella misura stabiliti. Questa regola, nel contesto post-Covid, “diventerebbe di fatto impraticabile per vari Paesi, non solo per l’Italia”. In parole semplici: se uno stato raccoglie dall’economia più di quanto spende, al netto della spesa per interessi sul debito, tende a frenarne la crescita. Si chiama avanzo primario ed è l’ingrediente principale dell’austerità. Se le regole Ue restassero invariate, l’avanzo primario necessario a ridurre il debito sarebbe talmente grande da minacciare le prospettive di ripresa per molti Paesi.
Lo European Fiscal Board (Efb), che ha elaborato per la Commissione un’articolata proposta di riforma, vorrebbe abbandonare il ritmo di riduzione del debito universale per tutti gli Stati membri. Si passerebbe a un piano di rientro “country specific”, vale a dire definito su misura e, dunque, più realistico.
“Prociclico”, una brutta parola
Prima di passare agli altri aspetti della proposta di riforma sul tavolo della Commissione, sarà necessario fare un piccolo passo indietro. Quando si parla dei limiti delle attuali regole europee, qual è il difetto più citato dagli esperti? Incoraggiano o, comunque non scoraggiano a sufficienza, politiche di bilancio procicliche.
Un vincolo di bilancio prociclico funziona così: è troppo morbido quando l’economia cresce, fallendo così nel promuovere un’adeguata riduzione del debito; ma è troppo duro quando si va in recessione, poiché impedisce al governo di spendere quanto sarebbe più opportuno per ritornare alla crescita.
Già nel 2005, con la prima riforma del Patto di Stabilità, erano stati introdotti nuovi elementi per consentire spazi di manovra più efficaci ai governi. Tutti conoscono il limite del 3% sul Pil per il deficit, ma in pochi la complessità delle regole che sono state aggiunte in seguito per rendere i vincoli di bilancio meno “stupidi” (cioè meno prociclici). L’obiettivo fondamentale della riforma era trovare una misura del deficit depurata dalle oscillazioni dell’economia e ancorare i vincoli sul disavanzo a questa misura più “pura”: il saldo strutturale. Qual è il saldo strutturale da raggiungere? Lo definisce un altro calcolo complesso, adeguato alle condizioni di ciascun Paese: il Medium-Term Objective (Mto), che viene calcolato tenendo in considerazione i livelli di debito, le prospettive di invecchiamento della popolazione, ma anche il ciclo economico. L’Mto assegnato all’Italia corrisponde(va) a un avanzo strutturale dello 0,5%, pari circa a 9 miliardi di euro all’anno. Chiunque provi a spiegare questo sistema va inevitabilmente in crisi: la sua complessità è un problema che Bruxelles ha pienamente riconosciuto. Ma ce n’è anche un altro: è un sistema che non funziona.
“E’ molto difficile calcolare il saldo strutturale in tempo reale”, dice Bordignon. Per farlo è necessario fare la differenza fra il Pil potenziale e il Pil effettivo. Da questa sottrazione si ricava l’output gap, che è l’elemento essenziale per isolare il deficit dalle oscillazioni dell’economia. Il guaio è che il Pil potenziale e il Pil effettivo dell’anno seguente sono due misure “non osservabili” nel momento in cui viene elaborata la legge finanziaria. Quando il governo nazionale si confronta con Bruxelles sulla manovra economica, dunque, è costretto a farlo sulla base di queste stime piuttosto fumose.
Lo stesso Pil potenziale è il frutto di calcoli che, alla base, avrebbero una certa dose di arbitrarietà: infatti, per la definizione di questo indicatore, “la crescita osservata nel passato influenza anche le prospettive future”. In caso di recessione, dunque, non scende solo il prodotto effettivo, ma anche quello potenziale. Conclusione: un Paese la cui crescita sia stata deludente negli anni, avrà meno spazi di spesa per adottare politiche espansive nelle fasi di magra, in un circolo che tende ad autoalimentarsi verso il basso. E’ un Patto di Stabilità che tende ad essere – ancora – prociclico.
Le vie d’uscita
Avere a mente almeno i caratteri generali dei vincoli legati al saldo strutturale diventa importante per cogliere il valore della seguente affermazione:
“Noi dello European Fiscal Board proponiamo di abolire tutta questa parte” delle regole Ue, dice Bordignon. Un taglio con l’accetta “all’Mto e al deficit strutturale” che non sarebbero più “i punti di rifermento fondamentali nella programmazione della politica di bilancio”.
“In cambio proponiamo l’applicazione”, in versione aggiornata, “di una regola che già c’è: la regola della spesa”, afferma Bordignon. Si tratta di un limite che vincola la crescita della spesa pubblica in rapporto a quella del Pil potenziale.
“Sì, anche questa è basata sul reddito potenziale”, ma con un’importante differenza: “anziché essere basata sul Pil potenziale stimato da un anno all’altro, il calcolo sarebbe effettuato su una media molto più ampia, che terrebbe conto del reddito registrato nei quattro anni precedenti e facendo una previsione per i cinque anni successivi”. Per tale ragione, il Pil potenziale alla base della regola della spesa sarebbe una misura nettamente più stabile (“l’abbiamo studiata a fondo”), che permetterebbe di lasciare sufficienti margini di spesa pubblica anche quando si verifichi un brusco calo del Pil effettivo. In quest’ultimo scenario, lo Stato potrebbe comunque spendere quanto aveva previsto sulla base del suo reddito potenziale. E viceversa nel caso di un boom inatteso dell’economia.
La regola della spesa, poi, non trascura l’obiettivo della riduzione del debito. Per vincolare i governi ad abbassarlo “è necessario che la spesa cresca” di anno in anno, “un po’ meno di quanto cresce il Pil potenziale”. Dal momento che, con l’aumento del reddito nazionale crescono anche le entrate fiscali, questo sistema garantirebbe, negli anni, una gestione prudente della finanza pubblica.
Ed è a questo punto che entra in gioco la distinzione resa celebre da Mario Draghi: quella fra “debito buono” e “debito cattivo”. Lo European Fiscal Board, infatti, propone di non mettere tutta la spesa pubblica sullo stesso piano. All’interno della nuova regola sarebbe prevista tutta una serie di spese scomputate dal calcolo descritto in precedenza. In generale, si tratterebbe di tutti quegli esborsi che, avendo effetti particolarmente positivi sulla crescita economica, sono ritenuti sempre i benvenuti. Ma escluse dal calcolo sarebbero anche quelle spese strettamente collegate all’andamento dell’economia, come i sussidi di disoccupazione.
Infine, verrebbero incorporati gli effetti sulla cassa delle riforme fiscali: in parole semplici, se lo Stato prevede di incassare di più perché aumenta le tasse, potrà anche spendere di più.
Riforma del Patto di Stabilità: dalla teoria alla pratica
Il Commissario europeo agli Affari economici, Paolo Gentiloni, ha dichiarato che i lavori della Commissione sulla riforma del Patto di Stabilità ripartiranno dopo l’estate. Secondo Bordignon il consenso degli accademici e dell’esecutivo Ue è già molto ampio sulla regola della spesa, che come dicevamo, andrebbe a soppiantare definitivamente il saldo strutturale. “Sarà più complesso invece negoziare un percorso di riduzione del debito specifico per ciascun Paese”, ha aggiunto il membro dello European Fiscal Board. La tabella di marcia della riforma sarebbe la seguente: da qui all’estate del 2022 dovrebbe essere concordato il nuovo assetto delle regole fiscali Ue, in tempo perché la finanziaria programmata l’anno prossimo e vigente nel 2023 potrebbe essere già basata sul nuovo sistema.
“Noi dell’Efb siamo spesso in contatto con Gentiloni e [il vicepresidente della Commissione] Dombrovskis. La mia impressione è che la crisi Covid abbia reso la Commissione più propositiva rispetto al passato”, ha affermato Bordignon. La riforma del Patto di Stabilità, dunque, sarà ben più profonda di quanto sarebbe stato possibile immaginare fino a poco tempo fa.