Il progressivo aumento degli anziani e il calo dei giovani lavoratori in Italia sono sotto gli occhi di tutti. La scorsa settimana l’Istat ha diffuso la sua rilevazione sulla forza lavoro, secondo cui nel decennio 2012-2022, gli occupati, con un’età compresa tra i 15 ed i 34 anni sono calati del 7,6%, mentre sono cresciuti del 68,9% i lavoratori con un’età superiore a 65 anni. Abbiamo intervistato sul tema Alessandro Rosina, professore ordinario di demografia e statistica sociale nella Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano e scrittore. Il suo ultimo libro è “Storia demografica d’Italia. Crescita, crisi e sfide” (con R. Impicciatore, Carocci editore, 2022).
Quanto sta invecchiando la popolazione in Italia?
L’invecchiamento della popolazione è conseguenza dell’aumento della longevità, ma ancor più della riduzione della natalità, che aumenta il peso relativo degli anziani riducendo il numero di giovani (processo di “degiovanimento”).
Quando il tasso di fecondità (numero medio di figli per donna) rimane posizionato attorno a due, la popolazione smette di crescere, o diminuisce lentamente. Nel caso, invece, rimanga persistentemente sotto, le generazioni più giovani diventano via via di meno rispetto a quelle precedenti e la popolazione va a declinare. Ma soprattutto si determina una progressiva alterazione strutturale che tende ad avere forti ripercussioni negative sul fronte sociale ed economico.
Detto in altre parole, se un Paese mantiene una fecondità vicino al rimpiazzo generazionale, l’aumento della longevità fa conquistare gradualmente anni di vita in età avanzata senza far mancare la forza di sostegno della popolazione in età attiva. Se invece, come in Italia, la fecondità rimane a lungo sensibilmente sotto tale soglia, il costo dell’aumento della longevità – in termini di spesa per pensioni e salute pubblica – diventa sempre meno sostenibile, perché la denatalità va progressivamente ad erodere l’asso portante della popolazione attiva indebolendo così la capacità del paese di produrre ricchezza, ma anche far funzionare e rendere sostenibile il sistema di welfare.
L’Italia è stata il primo paese al mondo in cui i residenti under 15 sono scesi sotto gli over 65. Quest’ultima fascia d’età ha ora raggiunto l’entità degli under 25 ed entro il 2040 (forse già entro il 2035) supererà anche gli under 35.
Quali sono le previsioni per il futuro dell’Italia?
Le “previsioni” demografiche non hanno l’obiettivo di prefigurare il destino che ci attende, ma ci aiutano ad anticipare le conseguenze delle trasformazioni in corso e a capire quali scelte fare oggi per orientare il percorso più favorevole e collettivamente auspicato. La demografia è in grado di fornire l’infrastruttura della popolazione a metà secolo, attorno a cui costruire, in modo coerente, le condizioni sociali ed economiche desiderate e sostenibili.
Non sappiamo nel 2050 quanto sarà il prodotto interno lordo, quanto sarà il tasso di occupazione giovanile, quante saranno le famiglie sotto la soglia di povertà, ma sappiamo con basso margine di errore quanto sarà la percentuale di over 65. L’aumento della popolazione anziana possiamo, infatti, considerarlo un fatto certo. Nello scenario più basso, tra quelli proposti dall’Istat nelle ultime proiezioni demografiche, la percentuale di over 65 dal 23,5% sale al 33%, mentre nello scenario peggiore tra quelli proposti si avvicina al 37% (attorno al 35% in quello mediano). Sappiamo di fatto per certo anche che la componente anziana sarà l’unica a crescere in una popolazione che andrà progressivamente a ridursi (con una perdita di circa 5 milioni di abitanti nello scenario più verosimile). L’indice di dipendenza degli anziani (rapporto tra over 65 e fascia 15-64), l’indicatore guardato con più attenzione e preoccupazione dalle economie mature avanzate, salirà dall’attuale 37% a circa il 65% a metà secolo (61% nello scenario più favorevole).
Nel nostro paese le persone di 65 anni e più hanno già raggiunto la percentuale che il mondo avrà a fine secolo (22,6% secondo le previsioni delle Nazioni Unite). Ma soprattutto abbiamo ridotto la presenza delle generazioni più giovani su livelli che il complesso del pianeta vedrà forse solo in una fase avanzata del XXII secolo.
Se in tutte le economie mature avanzate è in continuo aumento la parte di popolazione che in passato ha dato ed è ora nella necessità di ricevere, da noi che altrove è in continua riduzione la parte di popolazione che dovrebbe essere nella condizione di generare e produrre.
Quali sono le conseguenze sullo sviluppo economico italiano dell’invecchiamento della popolazione?
Le istituzioni europee e internazionali da tempo mettono in modo crescente in evidenza il fatto che le economie più sviluppate stanno invecchiando rapidamente e che questo tende a frenare il miglioramento delle condizioni di vita e portare a un aumento sempre meno sostenibile della spesa sociale (soprattutto per pensioni e assistenza sanitaria). Come sottolineato anche in vari report della Banca d’Italia, dinamica e struttura demografica tendono, inoltre, tendono ad avere un impatto rilevante sulla crescita economica, hanno ricadute sui tassi di interesse reali, sugli investimenti e sulla domanda aggregata, sui ritmi di innovazione e sulla produttività.
Qual è l’impatto sul sistema previdenziale dell’Italia?
Per chi entra in età anziana e smette di lavorare, va garantita la possibilità di una pensione dignitosa e una vecchiaia serena. La popolazione in tale fase della vita sarà l’unica a crescere nel nostro paese nei prossimi anni e decenni. La sostenibilità del sistema previdenziale dipenderà, pertanto, soprattutto da quanto il nostro paese sarà in grado di promuovere una lunga vita attiva e da quanto il crollo della popolazione in età attiva sarà contenuto da un utilizzo efficiente della forza lavoro potenziale.
Uno dei maggiori punti critici, su entrambi questi aspetti, è il contributo che saranno in grado di dare le nuove generazioni che stanno entrando al centro della vita attiva e le condizioni che troveranno quando entreranno in età anziana. Contributo e condizioni che dipendono dai livelli di formazione, dai tempi di ingresso nel mondo del lavoro, dai livelli retributivi. Il fatto che l’Italia sia non solo il paese con percentuale di under 35 più bassa in Europa, ma anche uno degli stati membri con più elevata percentuale di NEET (i giovani che non studiano e non lavorano), con maggior esposizione a redditi bassi e discontinui per chi ha un impiego, crescente saldo negativo di talenti verso l’estero, è uno dei nodi che maggiormente minano sia le possibilità di crescita competitiva del paese che la sostenibilità del sistema previdenziale, ma più in generale la capacità di finanziare la spesa sociale e far funzione i vari settori del sistema di welfare in generale. Un rischio particolarmente elevato per un paese con alto debito pubblico come il nostro.
Va, insomma, capito che il sistema previdenziale italiano è stato riformato per tener conto dell’aumento degli anziani e con la preoccupazione di salvaguardare le pensioni attuali, ma la sua effettiva sostenibilità è legata alla consistenza quantitativa della nuove generazioni e alla solidità del loro ingresso nel mondo del lavoro, aspetti su cui si è assistito ad un’attenzione carente e un’azione inefficace della politica negli ultimi decenni.
Quali sono le conseguenze per il mercato del lavoro?
La spinta prodotta dalle classi centrali lavorative andrà progressivamente a indebolirsi come mai in passato.
Questa nuova fase, del tutto inedita e con forti implicazioni sulle condizioni di sviluppo, riguarda tutte le economie mature avanzate, ma con incidenza molto diversa nei vari paesi. In Italia il crollo della forza lavoro potenziale è tra quelli più marcati e problematici.
Il rischio è di veder indebolire progressivamente il pilastro produttivo del paese per la riduzione della consistenza demografica, non compensata da una corrispondente crescita della partecipazione effettiva al mercato del lavoro.
Più che una ingenuità sarebbe un tragico errore pensare che la riduzione demografica delle nuove generazioni nei prossimi anni possa, da un lato, essere meccanicamente compensata dall’aumento del tasso di automazione nel sistema produttivo, e d’altro lato, magicamente far diminuire il tasso di disoccupazione e di inattività giovanile. Se si lasciano sostanzialmente inalterate le condizioni del sistema Paese, l’Italia rischia, invece, di scivolare irrimediabilmente in un circolo vizioso di basso sviluppo, bassa disponibilità di giovani qualificati, bassa innovazione, bassa espansione di nuove opportunità di lavoro e bassa crescita competitiva delle aziende. E’ già evidente la difficoltà delle imprese, nella ripresa dopo la frenata imposta dalla pandemia, di alimentare e rigenerare i propri processi di crescita facendo leva sulle energie e le intelligenze delle nuove generazioni
I giovani qualificati stanno diventando la risorsa strategica più carente per lo sviluppo del nostro paese. Il mondo del lavoro dovrà sempre più valorizzare il contributo in tutte le fasi di una lunga vita attiva e la collaborazione tra diverse generazioni. E’ già evidente la forte crescita dei lavoratori maturi nelle aziende e nelle organizzazioni italiane. Andrà, anche, rafforzata la capacità di offrire strumenti di conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, per migliorare la partecipazione femminile. Va, inoltre, alzata la qualità della preparazione delle nuove generazioni e la capacità di inserirle e valorizzarle nel mondo del lavoro con competenze avanzate. Solo in questo modo la transizione demografica può integrarsi positivamente con le sfide poste dalla transizione verde e digitale.
Come pensa sia possibile invertire la rotta?
La nuova fase demografica in cui ci troviamo pone due grandi sfide. La prima è quella di mettere le basi di una società in cui l’ampia popolazione anziana possa vivere in condizioni di benessere, con adeguata cura e assistenza. La seconda è come creare sviluppo e generare benessere a fronte di un aumento delle risorse pubbliche a favore delle generazioni più mature, ma nel contempo con una drastica riduzione della popolazione in età attiva.
L’attenzione verso la crescita della componente anziana porta a cercare soluzioni su come valorizzare quanto accumulato in passato dalle generazioni più mature, sia in termini di esperienza nel mondo del lavoro (nel contesto delle pratiche aziendali di age management), sia di ricchezza disponibile (come leva per la silver economy).
La seconda sfida mette al centro la questione delle condizioni per generare nuova ricchezza e nuovo benessere. In questa prospettiva due sono i fronti su cui agire. Il primo è fare in modo che, dal punto di vista quantitativo, gli squilibri non vadano ad accentuarsi in modo irreversibile. Questo significa agire sulle politiche familiari di sostegno alla natalità e sulle politiche di gestione dei flussi migratori.
Il secondo fronte è quello di aumentare qualitativamente la partecipazione al mondo del lavoro a partire dalle nuove generazioni, su tutto il territorio, per entrambi i generi, come base di una lunga vita attiva. Questi due fronti vanno visti in modo integrato. Il miglioramento delle condizioni di autonomia dei giovani e di entrata nel mondo del lavoro consente anche di formare una famiglia e di avere figli. L’aumento dell’occupazione femminile in combinazione con politiche di conciliazione (a livello pubblico e come welfare aziendale) porta ad aumentare anche la fecondità e a ridurre il rischio di povertà delle famiglie con figli.
Quale ruolo può giocare l’immigrazione in Italia?
La gestione dell’immigrazione va considerata parte di un’azione sistemica di rafforzamento strutturale del paese, con misure che aiutino tutti gli ingranaggi di integrarsi positivamente e girare nella direzione giusta. Se da un lato, l’immigrazione è un fattore rilevante per rispondere agli squilibri demografici e ai fabbisogni delle imprese in molti settori, d’altro lato non è possibile un’attrazione di qualità senza sviluppo economico e possibilità di integrazione lavorativa e sociale. Inoltre, sia lo sviluppo economico, che l’integrazione lavorativa e sociale degli immigrati, rimangono deboli se non migliorano nel contestualmente anche le prospettive di occupazione giovanile e femminile in generale. Ciò che oggi non funziona nella transizione scuola-lavoro, penalizza anche (spesso ancor più) i giovani stranieri. Analogamente le carenze degli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia, vincolano al ribasso la partecipazione femminile al mercato del lavoro sia delle donne autoctone che delle immigrate.
In definitiva, cogliere queste sfide e agire con successo su questi fronti, non consente solo di rispondere agli squilibri demografici, ma di avere anche famiglie che realizzano le proprie scelte di vita, giovani e donne che trovano piena valorizzazione, aziende che combinano attenzione al benessere del lavoratore e produttività, sistema paese che riduce le diseguaglianze generazionali, di genere e sociali per mettere in campo al meglio tutte le sue potenzialità.