di Angelo Lucarella, avvocato specializzato in contenzioso tributario e tutela d’immagine
In un Paese come l’Italia sarebbe buona condotta prima fare la norma, poi annunziarne gli effetti.
Nel caso proroga della famosa rottamazione fiscale siamo dinanzi a un fatto insolito: il Ministero dell’Economia ha emesso il comunicato n. 68 il 21 aprile scorso allertando i contribuenti italiani la decisione di ampliare di due mesi il tempo per presentare le dichiarazioni di adesione alla procedura speciale di definizione agevolata prevista dalla legge di bilancio 2023 n. 197/2022. Tale proroga targata MEF riguarderebbe l’art. 1, comma 235, il quale ultimo, sino ad oggi (basti consultare il sito normativa.it della Presidenza del Consiglio dei Ministri), prescrive come termine finale la data del 30 aprile 2023 per le cosiddette manifestazioni di volontà da parte dei contribuenti.
Si potrebbe opinare quale sia il problema dato che, successivamente, anche il Governo ha (a sua volta) diramato il comunicato n. 33 con cui spiega la decisione assunta in sede di CdM il 4 maggio scorso. C’è un però, un grosso però.
Mentre in molti hanno dato atto della decisione del Governo di prorogare la scadenza della rottamazione (con effetti, da una parte, retroattivi – recuperatori e, dall’altra parte, a valersi per il futuro) è bene considerare che il testo ufficiale del comunicato di Palazzo Chigi porta con sé un probabile consolidamento della disparità di trattamento riguardo alle pretese precedenti al 2000; pretese, quest’ultime, che si presume rinnovate nel tempo con atti di interruzione della prescrizione da parte dell’Amministrazione finanziaria perché diversamente andrebbero tutte cancellate dalla contabilità pubblica per inesigibilità.
Detto ciò, si legge nel comunicato di cui sopra, che “In materia di definizione agevolata dei carichi affidati agli agenti della riscossione, si prevede che il pagamento dei debiti risultanti dai singoli carichi affidati agli agenti della riscossione dall’1.1.2000 al 30.06.2022… omissis”.
La riflessione da porre, sul piano di contabilità e finanza pubblica, è sul perché escludere quanto maturato prima del nuovo millennio considerato che, così facendo, chi ha un debito erariale datato nel tempo non potrà godere dello stesso beneficio spettante a chi ha maturato i debiti stessi posteriormente?
Una mezza risposta potrebbe derivare dal fatto che la norma sulla rottamazione (ed in verità anche quella sul saldo e stralcio del Governo Conte 1 nonché quella sulla cancellazione delle somme residue fino a mille euro) implica almeno tre valutazioni.
La prima è che a poter essere oggetto della procedura siano solo i debiti erariali oggetto di carico “affidato” agli agenti della riscossione nel periodo 2000/2022.
La seconda è conseguenza della prima: sono esclusi non solo coloro i quali abbiano maturato debiti prima del 2000, ma anche coloro che abbiano visto i propri carichi di debito erariale “affidati” all’agente della riscossione dopo giugno 2022.
La terza è di natura normativa nel senso che l’istituto dell’affidamento in carico, legato ai famosi ruoli (che poi confluiscono nelle temutissime cartelle di pagamento), è stato riorganizzato a fine anni novanta del secolo scorso (si pensi ai D.lgs. 46/1999 e 112/1999 che hanno modificato il DPR 602/1973).
Quindi, il Governo (e il legislatore in senso lato) potrebbe non avere tutti i torti nel circoscrivere che la rottamazione deve applicarsi agli affidamenti in carico a partire dall’anno 2000.
Ma sorge una domanda sulla quale non c’è ancora risposta né nei testi di legge in vigore, né scavando nel dibattito e tra le dichiarazioni politiche sul tema.
Perché applicare il parametro dell’affidamento in carico piuttosto che quello dell’esistenza e/o pendenza del debito erariale in quanto tale?
A questa domanda occorre dare risposta perché l’oggetto dell’introito pubblico mediante l’incameramento del gettito fiscale è il rapporto impositivo-esattivo. Non altro.
Escludere dalla rottamazione una serie di soggetti contribuenti, che rappresentano ipoteticamente un determinato ammontare di partite fiscali non riscosse, significa rinunciare da parte statale (in formule percentuali prima di tutto) anche al rimpinguamento di quei fondi legati alla lotta all’evasione fiscale e alla riduzione della relativa pressione (vedasi sul punto, ad esempio, l’art. 41 del D.L. 48/2023 proprio entrato in vigore il 4 maggio scorso). Per la finanza pubblica le iscrizioni di partite a credito nei confronti dei cittadini costano più del debito pubblico se pensiamo che il mantenimento di certe partite fiscali nelle scritture contabili dello Stato alimenta l’ammontare che proprio l’Europa ci chiede di diminuire e sulla cui relazione, come Paese, fidiamo e stimiamo i piani triennali dei Programmi di Stabilità (non ultimo quello del Def di poche settimane fa). Un cane che si morde la coda? Non proprio, ma quasi. Sullo sfondo rimane vigile la Costituzione.