La Heineken ha dichiarato il suo completo ritiro dalla Russia, interrompendo un coinvolgimento che durava da vent’anni e che si è concluso con una perdita finanziaria di 300 milioni di euro. Dopo aver affrontato critiche per la sua permanenza in Russia nonostante l’aggressione militare all’Ucraina, la Heineken ha spiegato di aver finalizzato la cessione dell’intera attività, composta da sette birrifici e 1.800 dipendenti, al gruppo russo Arnest, specializzato nella produzione di profumi, cosmetici e articoli per la casa. Questa transazione ha incluso la cessione dei birrifici della Heineken al prezzo simbolico di un euro. Il marchio Heineken aveva già smesso di essere venduto e prodotto in Russia nel 2022, così come avevano fatto le aziende di birra Miller e Guinness.
L’addio di Heineken dalla Russia
È noto che l’invasione russa dell’Ucraina ha notevolmente deteriorato i rapporti tra la Federazione Russa e l’Unione Europea. Questa dinamica si riflette in modo particolarmente evidente nell’ambito economico-commerciale. A partire da febbraio 2022, l’UE ha introdotto dieci pacchetti di sanzioni che colpiscono quasi la metà (49%) delle sue esportazioni verso la Russia, basate sui dati del 2021. Tuttavia, nonostante numerose aziende occidentali abbiano interrotto le loro attività nel mercato russo, altre continuano a operare in loco. Questo è vero anche per diverse aziende italiane.
Secondo uno studio dell’Università di San Gallo in Svizzera, pubblicato nel gennaio 2023, solo l’8,5% delle aziende occidentali ha effettivamente abbandonato la Russia. Tra le aziende che rimangono e mantengono una partecipazione nel mercato russo, il 6,3% sono di origine italiana. Secondo un rapporto dell’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane (ICE) a Mosca, nonostante un volume di interscambio che ammontava a 1,2 miliardi di euro nel gennaio 2023 – una diminuzione del 48% rispetto al gennaio 2022 – e nonostante una flessione delle esportazioni del 37% rispetto all’anno precedente, l’Italia continua a essere un partner commerciale della Federazione Russa.
Nonostante l’ormai radicata popolarità del “Made in Italy”, l’invasione russa ha avuto un impatto negativo sull’export italiano verso la Russia, causando una diminuzione generalizzata delle vendite. Secondo l’ICE, il settore più colpito su base annua è stato l’export italiano di mezzi di trasporto, che ha subito una contrazione delle vendite del 58,6%, rappresentando il 4,5% del totale delle esportazioni italiane verso la Russia.
D’altro canto, il settore agroalimentare è stato meno influenzato, registrando un calo delle vendite del 3,4%. Altri settori hanno subito cali percentuali differenti: il comparto della meccanica ha sperimentato una diminuzione del 21,4%, il settore casa ha visto una riduzione del 30,8%, l’industria della moda ha segnato una diminuzione del 27,5% e il settore farmaceutico ha subito una contrazione del 29,8%. Questi dati evidenziano le variazioni nell’entità dell’impatto su diversi settori dell’export italiano verso la Russia dopo l’invasione.
Ancora tante aziende italiane sono rimaste in Russia: ecco quali
Le compagnie che hanno abbandonato sono diverse. Alcune grandi multinazionali ad avere lasciato completamente la Russia sono Ford, Renault, McDonald’s, Ikea e Shell, secondo un elenco compilato dall’università di Yale. Al contrario, altre giganti come Unilever, la catena di fast food statunitense Subway e il produttore italiano di pasta Barilla hanno scelto di continuare le loro operazioni nel Paese. Sembrerebbe che ci sia una discrepanza tra le decisioni politiche prese da Europa e Stati Uniti e gli interessi economici delle aziende, dato che la maggioranza di esse ha scelto di non interrompere i propri affari nonostante la guerra commerciale avviata da G7 e UE contro la Russia.
Lo studio condotto dall’Università di Yale suddivide le 1.586 imprese occidentali attive in Russia in cinque categorie in base al grado di coinvolgimento. Ecco una panoramica di queste:
- Classe A: 518 aziende che hanno completamente abbandonato la Russia. Questa categoria include nomi come Autogrill, Enel, Eni, Iveco e Generali tra le aziende italiane.
- Classe B: 497 aziende che hanno sospeso alcune attività in Russia ma ne mantengono altre. In questa categoria ci sono aziende come Diadora, Ferragamo, Ferrari, Leonardo, Moncler e Prada.
- Classe C: 151 aziende che stanno riducendo l’intensità e gli investimenti in alcuni settori, ma continuano ad operare in altri. Qui troviamo marchi come Ferrero, Indesit, Luxottica, Pirelli e Valentino.
- Classe D: 180 aziende che stanno temporaneamente ritardando nuovi investimenti in Russia ma continuano a svolgere attività significative. In questa categoria figurano aziende come Barilla, Campari, De Longhi, Geox, Armani, Intesa Sanpaolo, Maire Tecnimont, Menarini e Saipem.
- Classe F: 240 aziende che, nonostante le sanzioni, mantengono una presenza attiva in Russia. Questa categoria comprende 12 aziende: Ariston, Benetton, De Cecco, Diesel, Fenzi, Boggi, Buzzi Unicem, Calzedonia, Cremonini Group, Fondital, Perfetti Van Melle e Unicredit.
Financial Times: “Per le imprese europee perdite di 100 miliardi”
Le imprese europee attive in Russia hanno subito perdite significative, stimabili in almeno 100 miliardi di euro, dall’inizio della guerra in Ucraina. Questo dato è stato rivelato dal Financial Times, basandosi sui bilanci delle aziende.
L’analisi condotta sulle relazioni annuali e sui bilanci del 2023 di 600 gruppi europei ha evidenziato che 176 società hanno registrato svalutazioni di attività, oneri legati ai cambi e altre spese eccezionali a causa della vendita, chiusura o riduzione delle attività in Russia. Questa cifra complessiva di 100 miliardi di euro non tiene conto degli impatti macroeconomici indiretti della guerra, come l’aumento dei costi dell’energia e delle materie prime.
Sebbene i settori con maggiori svalutazioni e oneri siano stati quelli legati al petrolio e al gas, come Bp, Shell e TotalEnergies, che hanno accumulato oneri combinati per 40,6 miliardi di euro, hanno potuto bilanciare le perdite grazie agli enormi profitti generati dall’aumento dei prezzi dell’energia. Altri settori colpiti includono l’industria automobilistica, con perdite stimabili in 13,6 miliardi di euro, e il settore finanziario, che ha visto svalutazioni e oneri pari a 17,5 miliardi di euro.