(WSI) – Un anno fa, il 9 marzo, qualcuno vendette l’SP 500 a 666. Forse fu un trader che si coprì subito, ma forse fu qualcuno che apparteneva a quella scuola di pensiero che sosteneva che ci fosse ancora ampio spazio per scendere. Giravano obiettivi da fare rizzare i capelli, 500 e anche sotto, e non erano solo strategist deflazionisti alla Albert Edwards (peraltro sempre stimolante e intellettualmente onesto) ma anche economisti brillanti come Barry Eichengreen che non indicavano target ma si limitavano a sovrapporre i grafici di produzione industriale, occupazione e borsa del 1929-1930 a quelli del 2008-2009, pressoché identici, e mostravano quanto ancora si poteva scendere se si continuava a seguire quello schema.
La svolta del 9 marzo fu accolta da scetticismo e perfino investitori veloci come i fondi hedge attesero un mese intero di rialzi per coprire gli short. Al secondo mese di rialzo si parlava ancora di sucker’s rally. Più tardi si sarebbe andati avanti altri mesi con l’idea del bear market rally in attesa dell’immancabile double dip.
La parte più costruttiva del mercato si consumò per sei mesi in discussioni sulla ripresa a U, oppure a V o a radice quadrata. Il consenso era che il recupero sarebbe stato molto debole. Solo Michael Mussa provò a dire qualcosa di diverso, sostenendo che la crescita poteva arrivare al 5-6 per
cento. L’argomentazione di Mussa non era però particolarmente robusta e si basava sulla constatazione che in passato a una forte caduta era sempre seguito un forte recupero.
Alla fine tutti hanno avuto la loro parte di ragione e tutti hanno avuto più o meno torto. L’intreccio tra una crisi che, con qualche errore di policy in più, avrebbe potuto davvero trasformarsi in depressione e interventi pubblici che, dopo Lehman, sono stati all’altezza della situazione, ha prodotto un esito originale nel quale ora ci troviamo a vivere.
La ripresa non è stata a U, perché siamo passati da una velocità di meno 6 a una di più 5, con un’escursione di ben 11 punti tra marzo e ottobre. Non c’è stata però nemmeno la V violenta alla Mussa. Se fossimo in una classica fase di ripresa, come ad esempio quella dei primi anni Ottanta, oggi staremmo crescendo a una velocità annualizzata dell’8 per cento e invece siamo grosso modo al 4 negli Stati Uniti e all’1.5 in Europa.
La ragione per questa V decente, ma non brillante, è che da decenni il primo anno di ripresa è trainato tipicamente da case e automobili (oltre che dalla ricostituzione di scorte in generale). Questa volta, però, le case non partecipano perché ce ne sono ancora troppe vuote, mentre le auto sono la vittima d’elezione della nuova (e corretta, a lungo termine) propensione a risparmiare. Insomma, l’insieme dei consumi tiene bene, anche meglio del previsto, ma si aspetta di più per cambiare la macchina e magari si rinuncia per sempre, in America, alla seconda o alla terza vettura.
Case e auto, in frenata strutturale, peseranno sulla crescita americana per parecchi anni. Gli incentivi fiscali a contrarre mutui hanno toccato il loro massimo storico e da qui in avanti verranno cautamente ridotti. Anche se questo non dovesse avvenire, le banche finanzieranno meno l’acquisto di case perché cercheranno di diversificare di più il loro attivo.
Meno case e meno auto significheranno per l’America una destinazione più produttiva dei capitali e lasceranno risorse da dedicare alle esportazioni. In prospettiva l’America riequilibrerà i suoi conti con l’estero con una riduzione strutturale ulteriore del disavanzo delle partite correnti.
E’ affascinante vedere come il riequilibrio macro tra Stati Uniti e Cina abbia un esatto corrispettivo micro. Meno case in America e più case in Cina. Meno auto in America e più auto in Cina. Miglioramento della produttività del capitale in America e peggioramento in Cina.
Quando si fanno paragoni tra America e Cina molti storcono ancora il naso perché le due economie hanno dimensioni molto diverse. I 5 trilioni della Cina, per quanto crescano veloci, non possono bilanciare i 14 degli Stati Uniti.
Questo è vero se guardiamo alle grandezze monetarie, ma se correggiamo il cambio tra dollaro e renminbi e se sgonfiamo il Pil americano dai servizi (o gonfiamo quello cinese di servizi che un giorno non lontano verranno fatturati) le due economie sono comparabili. Quindici milioni di auto in Cina e undici negli Stati Uniti.
Si è parlato molto, negli ultimi due anni, delle cittadine nuove, le edge towns, costruite negli anni del boom nel Mojave o intorno a Las Vegas e rimaste vuote. Ora ovviamente non se ne costruiscono più, mentre piano piano si vendono a metà prezzo quelle degli anni scorsi.
In Cina, in compenso, si sta ancora costruendo a Ordos, nel deserto della Mongolia interna. Le edge towns americane sono costruite per poche migliaia di abitanti, ma Ordos è una metropoli programmata per un milione e mezzo di persone. Per tre quarti è già pronta, ma è quasi completamente vuota e non ci vuole andare a vivere nessuno. C’è un filmato su YouTube che la mostra in tutta la sua bellezza metafisica.
Il riequilibrio del mondo si fa anche così. Molti sono preoccupati per questo stato di cose e pensano con apprensione alla salute delle banche che hanno finanziato le varie Ordos e al collasso inevitabile di un modello di sviluppo basato sulla costruzione ossessiva di capacità produttiva per la quale non è chiaro se ci sarà mai una domanda.
Dal punto di vista cinese, però, il finanziamento che preoccupa di più non è quello per le varie Ordos (che un giorno verranno in qualche modo popolate) ma quello erogato agli Stati Uniti, quel trilione abbondante di cambiali del Tesoro americano che intasa più della metà delle riserve cinesi. I mattoni di Ordos sfideranno il vento e la sabbia del deserto meglio di quanto le cambiali sfideranno la svalutazione del dollaro.
La Cina, dunque, non collasserà necessariamente per le sue Ordos e per le sue immense mall, come quella di Guangzhow, la più grande del mondo e praticamente vuota da cinque anni. L’America uscì dalla depressione con le spese per la seconda guerra mondiale e gli economisti non l’accusano per questo di essersi data a investimenti improduttivi per colmare l’output gap.
Anche le auto che i cinesi comprano e parcheggiano davanti a casa per farle vedere ai vicini e senza mai usarle sono una spesa improduttiva, ma nessuno ha niente da ridire.
Insomma, tutti vorremmo che l’allocazione del capitale fosse efficiente economicamente e magari anche indirizzata verso obiettivi extraeconomici nobili (meglio finanziare la ricerca contro il cancro che costruire stadi di calcio), ma è sempre meglio colmare male l’output gap che non colmarlo affatto e precipitare in una spirale di deflazione.
A un anno dai minimi del ciclo e dei mercati le fragilità del mondo sono evidenti e la crisi greca, mettendo in luce i rischi di crisi fiscale, ci ha resi tutti ancora più consapevoli. Meno evidenti, a volte, sembrano però i punti di tenuta (e perfino di forza) del sistema. Come ha scritto efficacemente David Bowers di Absolute Strategy Research, a furia di modellizzare un cigno nero dietro l’altro, rischiamo di essere impreparati all’eventualità, per quanto remota, di un cigno bianco.
A un anno dai minimi, il mondo nel suo insieme sta crescendo a una velocità superiore al 4 per cento che potrebbe mantenersi per tutto il 2010 e anche per il 2011.
E’ esattamente la stessa velocità dell’età dell’oro 2003-2007. Eppure oggi ci sentiamo a pezzi e con i manuali di macro da riscrivere, mentre allora eravamo tronfi di orgoglio e convinti di avere capito tutto.
In Europa ci sentiamo ancora peggio degli altri, perché nel 2008 e 2009 abbiamo licenziato meno che in America e ora ci troviamo a essere meno leggeri di loro. In più, la più grande industria europea, l’automobile, è stata sussidiata pesantemente per tutto il 2009 (mentre il Cash for Clunkers è durato quattro settimane esatte) e ora non riceve più un euro. A ben guardare, però, avere l’auto che arretra in tutto il continente e riuscire lo stesso a crescere dell’uno e qualcosa non è così disprezzabile come appare.
Per l’America possiamo dire che il ciclo delle scorte, che secondo alcuni doveva esaurire i suoi effetti positivi già in ottobre, ha ancora molta strada davanti a sé. I consumi tengono bene, le esportazioni vanno bene e tutta questa domanda non potrà continuare a essere soddisfatta svuotando i magazzini. L’ultimo ISM manifatturiero ci dice che quasi tutti i clienti finali delle fabbriche (grandi magazzini e negozi) hanno scorte troppo basse.
Tra gli emergenti, a compensare una Cina che sta provando a frenare, ci sono Africa, Russia, Brasile, Corea e India che vanno solidamente bene. L’India, in particolare, si propone di diventare nei prossimi anni il paese a più alta crescita del mondo e vuole superare il 10 per cento annuo.
Nelle scorse settimane abbiamo fatto indigestione di Grecia. Tra le idee più ascoltate c’era quella dell’impossibilità di fare sacrifici per un paese occidentale senza scatenare chissà quali rivoluzioni. Avendo un minimo di esperienza di paesi molto più poveri che avevano fatto (e fanno) sacrifici molto più duri senza avere i carri armati per le strade a garantire l’ordine non eravamo molto convinti che la Grecia non potesse tirare un po’ la cinghia anche lei. Ora vediamo una correzione fiscale greca di 4 punti tondi di Pil.
Buon segno. Ma ancora più incoraggiante è guardare a chi i sacrifici veramente duri li ha già fatti e vedere che dopo due anni di lavoro arrivano risultati lusinghieri e ammirevoli. L’Estonia, che era arrivata a un passivo delle partite correnti del 17 per cento (le partite correnti sono ancora più significative del disavanzo pubblico, perché includono anche il settore privato), è oggi in attivo. Senza avere svalutato di un centesimo, senza manifestazioni di protesta nel centro di Tallinn e con aiuti dall’estero più avari di quelli che arriveranno alla Grecia. Oggi l’Estonia è pronta a cogliere la ripresa della domanda internazionale e a tornare a crescere rapidamente.
Per chi investe in titoli di stati sovrani è molto importante, soprattutto in questa fase storica così fluida, verificare il grado di flessibilità (del cambio nominale e reale, della struttura politica e sociale) dei vari paesi. Se rimaniamo strategicamente molto ottimisti sull’Europa orientale (Balcani e Ucraina inclusi) anche se il 2010 sarà un altro anno impegnativo, è perché sotto la superfice apparentemente stagnante la ristrutturazione procede veloce grazie alla flessibilità di quei sistemi.
L’alleggerimento delle paure sulla Grecia e l’abbandono completo di quelle tentazioni populiste cui l’Amministrazione Obama era sembrata per un momento disposta a cedere tolgono ai mercati due delle tre ragioni che hanno prodotto la correzione tra metà gennaio e metà febbraio. La terza, l’ipercomprato di breve, si è rapidamente trasformata in un significativo ipervenduto. La linea di minore resistenza è ora verso l’alto.
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