Scommessa tedesca: al presentarsi di uno shock esogeno, la fragilità dell’impianto verrebbe meno
MILANO (WSI) – Nel pensiero europeo la Russia è stata spesso percepita come estranea e temibile e, in una parola, asiatica. Si tratta ovviamente di un errore di prospettiva grossolano, dal momento che l’Asia vera per la Russia è stata in certi momenti una minaccia esistenziale mentre la cultura europea è stata l’unica fonte con cui quella russa si sia mai confrontata.
Più che estranea, dunque, la Russia è sempre stata incommensurabile, a partire dall’immensità del suo spazio. L’Ucraina, per contro, è sempre stata alla portata della psiche europea, che l’ha costantemente considerata come sua, anche se posta ai confini del mondo comprensibile.
Greci, bizantini, genovesi e veneziani sono sempre stati di casa a Odessa, città cosmopolita. Vista dalla Vienna asburgica, la Rutenia era tanto europea quanto Trieste. L’Ucraina occidentale, dal canto suo, fino a pochi decenni fa era in buona parte Polonia.
Terra di confine, dunque, come dice l’etimo stesso, secondo alcune interpretazioni, della parola Ucraina. E parte dominante delle Terre del Sangue, come ci ricorda fin dal titolo un libro magnifico e terribile pubblicato nel 2010 dallo storico di Yale Timothy Snyder.
Terre, quelle che si estendono tra il Baltico e il Mar Nero, che nella prima metà del Novecento hanno vissuto tragedie indicibili. Dai tre milioni di morti della carestia causata dalla collettivizzazione forzata delle campagne da parte di Stalin, alle 700mila vittime del terrore staliniano del 1936, ai 5 milioni di ebrei di questa regione sterminati nei campi, alle feroci vendette di Stalin per gli atteggiamenti filotedeschi (in realtà antirussi) manifestati da una parte degli ucraini durante la guerra, sono 14 milioni le vittime del bagno di sangue nel solo periodo che va dal 1930 al 1945. Solo l’ucraino Khrushchev restituirà un minimo di dignità a popolazioni che il potere russo ha sempre considerato come indegne di pieni diritti.
L’Ucraina è oggi l’ultimo capitolo non chiuso del Novecento europeo. La Jugoslavia è stato il penultimo e non è un buon precedente.
L’Europa è stata infatti in grado di rimetterne insieme i cocci solo perché dieci anni di feroce guerra civile avevano prodotto lo spossamento delle forze in campo. Era, quella degli anni Novanta, un’Europa piena di fiducia in sé stessa e ancora ricca. Quella di oggi è capace solo di minacciare sanzioni e non è disposta a mettere nemmeno un euro in Ucraina.
È l’Europa che ha il default come unica soluzione programmatica dei problemi, siano questi bancari o sovrani. La piazza ucraina evoca la Jugoslavia che si vuole dividere, non l’Egitto che si vuole liberare del tiranno. Per fortuna gli odi e i rancori sono meno sedimentati e una soluzione ragionevole sarebbe possibile se Europa e Russia non usassero l’Ucraina come strumento di guerra geopolitica.
La Russia di Putin, che ha problemi strutturali seri ma ha ancora tanti soldi, vuole comprare con i suoi aiuti la neutralità ucraina. Non vuole russificare il paese, ma non vuole nemmeno perderlo completamente.
L’Europa agita un futuro ingresso ucraino nell’Unione che in realtà non ci sarà mai e soffia sul fuoco con disinvoltura, chiudendo i due occhi rispetto alla deriva estremista dell’opposizione al governo di Kiev.
Di per sé l’economia ucraina non ha rilevanza sistemica. Il suo Pil in dollari, ai corsi attuali della grivna, è poco più di un quinto di quello turco. Cento anni fa, del resto, l’economia ucraina valeva poco meno di un decimo rispetto a quella americana, oggi vale un centesimo.
Oltre all’agricoltura, i punti di forza sono l’acciaio e l’industria aeronautica, lasciti della divisione del lavoro sovietica. Le banche sono abbastanza in ordine, per il momento. Preoccupano di più il disavanzo pubblico, prodotto dalle politiche populiste degli ultimi due anni, e quello delle partite correnti.
Il debito sovrano non è particolarmente alto (45 per cento del Pil) e il cambio, nei momenti di crisi, viene lasciato giustamente andare. Il paese è flessibile, come dimostra l’ampia emigrazione. Da un punto di vista economico ha vissuto, dopo l’indipendenza, momenti anche peggiori dell’attuale, ma l’incognita grave, ovviamente, è politica.
La crisi ucraina sembra avere ritmi simili a quella venezuelana. La situazione a Caracas è piuttosto caotica. Il capo chavista del parlamento che passa in macchina davanti a un comizio e rapisce al volo il capo dell’opposizione mettendolo agli arresti è uno segno dell’abbandono di quel minimo di regole che Chavez non aveva mai messo in discussione.
Come il Qatar, il Venezuela è oscenamente ricco. Le sue riserve di fossili sono le maggiori del pianeta. Mentre però a Doha spunta un grattacielo alla settimana, a Caracas mancano i beni essenziali.
Per il momento, tuttavia, non c’è una mancanza di dollari nelle casse dello stato, ma piuttosto una loro pessima distribuzione attraverso aste che vanno agli amici degli amici. Se il Venezuela svalutasse aggressivamente, molti dei suoi problemi potrebbero essere risolti.
Il conflitto politico è il vero problema del paese. L’opposizione è vivace, ma il governo chavista ha una sua base popolare che non dà ancora segni di cedimento.
I mercati, che due settimane fa si erano messi a tremare per gli emergenti, stanno ignorando l’aggravarsi della crisi in Ucraina e in Venezuela. Stanno anche ignorando la prevalenza di dati macro mediocri che si susseguono da quasi un mese e il petrolio ritornato forte. È la Frozenomics, si dice, è il freddo.
Molto probabilmente è vero. Quando però si guida in condizioni di scarsa visibilità, prudenza vuole che si vada piano e si mantenga la distanza di sicurezza.
In queste ore, invece, vediamo borse scalpitanti sui massimi, impazienti di vedere i nuovi dati di primavera per potere salire di nuovo.
La nebbia sui dati macro durerà ancora almeno due-tre settimane e non è chiaro se il mercato riuscirà a mantenersi così ottimista.
Al momento, quindi, vediamo nel breve più potenziale di ribasso (non necessariamente pronunciato) che di rialzo. Per metà anno, invece, le borse potrebbero essere benissimo sopra i livelli attuali.
Il Fondo Monetario, dal canto suo, lancia un monito sulla fragilità della ripresa e sui rischi di deflazione. Il suo rapporto al G-20 (un appello accorato a mantenere politiche monetarie accomodanti) sembra scritto, dalla prima all’ultima riga, per la signora Merkel. Lagarde e Blanchard, che ne sono gli ispiratori, sono cittadini di quella Francia che si sente soffocare ed è costretta a vendere ai cinesi un suo gioiello come la Peugeot.
Il problema, per l’Europa e per il mondo, è che la Germania è perfettamente soddisfatta per come stanno andando le cose a casa sua. Certo, ci sono problemi strutturali come la caotica politica sull’energia (decisa peraltro in totale autonomia), ma per il resto tutto va per il meglio.
L’inflazione è prevista tra l’1.5 e il 2 per cento da qui al 2018, la produzione industriale va bene, così come l’export e l’occupazione. I conti pubblici sono sotto controllo senza nessuno sforzo, il debito scende di anno in anno, l’euro va benissimo dove sta. La Germania non ha nessuno stimolo a cambiare alcunché. Se l’Europa mediterranea veleggia verso l’inflazione zero va benissimo, così recupera competitività. Se inflazione zero e Pil reale a zero significano debito-Pil in continua salita per l’Italia, non c’è problema. Visto che non ha voluto fare le riforme e tagliare la spesa, che ristrutturi il debito o si tassi di più.
Se l’America cresce come previsto, calcola la Germania, l’Italia può andare avanti a galleggiare, mentre gli altri (Spagna, Irlanda e Portogallo), che si sono dati da fare di più, possono continuare a curarsi e a guarire. La Francia è grande e si può arrangiare da sola.
Quella tedesca è una scommessa, ma non è così irrazionale. Il punto debole è che, al presentarsi di uno shock esogeno, la fragilità dell’impianto verrebbe alla luce. Speriamo in bene.
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