Segreto salariale, lo stipendio dei colleghi non sarà più tabù. Un problema, sì o no?
Possiamo mettere la parola “fine” al segreto salariale, il blocco che impediva ai dipendenti di poter rivelare quanto guadagnino tra loro. Con la direttiva UE 970/2023, ora colleghi e colleghe potranno rilevare tra di loro i rispettivi stipendi. E scoprire chi guadagna di più, e perché. Motivo di questa direttiva è anche il fatto di scovare quanti più casi di discriminazione salariale, una piaga sociale che, a detta degli analisti, porta in molti casi ad una retribuzione media tra donne e uomini di circa il 13% a livello europeo.
Una piaga, però, che si spera di debellare senza creare ulteriori problemi per imprese e soprattutto lavoratori. Perché la decadenza del segreto salariale permetterà anche di poter combattere il gender pay gap a livello legale. E mettere di mezzo l’avvocato e il giudice del lavoro potrebbe non stimolare molto l’economia, anzi c’è il rischio che si possa portare ad un progressivo appiattimento degli stipendi. Una pezza che è peggio del buco, per dirla volgarmente.
La fine del segreto salariale
La norma in realtà non è ancora in vigore in Italia. Solo a livello europeo sarà attiva dal 24 agosto, ma i paesi hanno tempo quasi 2 anni per recepire la direttiva e trasformarla in legge, prima di cadere in sanzione. Nel caso dell’Italia, si avrà tempo entro il 7 giugno 2026 per provvedere ad abolire il segreto salariale per lavoratori e lavoratrici in Italia. Malgrado le tempistiche lunghe, se dovesse venire approvata una legge al pari della direttiva 970/2023, le imprese avranno ulteriori obblighi da dover rispettare nei confronti dei propri dipendenti.
Le aziende dovranno mettere i dipendenti nelle condizioni di poter verificare che, alla stessa mansione, non venga attribuito un valore diverso a seconda di chi lo svolge. E che rendano trasparenti i criteri in base ai quali si stabilisca tale retribuzione. Inoltre dovranno far sì che lavoratori e rappresentanti sindacali ricevano informazioni chiare sulle retribuzioni medie. E le vieta di introdurre clausole contrattuali che vietino la divulgazione di informazioni sulla loro retribuzione, così come nel caso di richiesta da parte loro anche in merito ad altre categorie.
È una misura che andrà a colpire il gender pay gap che, malgrado il principio della parità retributiva sià sancito dal Trattato di Roma, continua a pesare in Europa e in Italia. Un gap tutto a svantaggio soprattutto per le italiane, difficilmente risolvibile con le norme attuali. Secondo uno studio del Global Gender Gap Report 2023, pubblicato lo scorso luglio dal World Economic Forum, per colmare questo gap con le attuali leggi serviranno altri 169 anni. Si spera così che, col recipimento della direttiva a livello nazionale, si riesca ad arrivarci entro il 2030.
L’inizio dei risarcimenti dalle aziende
Eppure, qualcuno dovrà rimetterci – anche se giustamente. Perché la direttiva stabilisce che, in caso lavoratore o lavoratrice scopra di aver subìto una discriminazione retributiva basata sul genere, si avrà diritto a un risarcimento “[…] che comprenda il recupero integrale delle retribuzioni arretrate e dei relativi bonus o pagamenti in natura, il risarcimento per le opportunità perse, il danno immateriale, i danni causati da altri fattori pertinenti che possono includere la discriminazione intersezionale, nonché gli interessi di mora“, dice la direttiva UE all’articolo 50.
Se ad oggi il sistema prevede che l’onere probatorio ricada sul lavoratore, in caso di discriminazioni, con la direttiva spetterà al datore di lavoro dover dimostrare di non aver violate le norme europee relative al gender pay gap. Potrebbe diventare un problema per le imprese che fino ad oggi hanno potuto tenere gli stipendi bassi per le proprie lavoratrici (o viceversa). Ritrovarsi immediatamente con una serie di risarcimenti, soprattutto di certe entità (“recupero integrale delle retribuzioni arretrate“) potrebbe mettere a rischio l’impresa, soprattutto se con un numero notevole di lavoratrici sottopagate. Anche perché la normativa UE prevede che se il divario retributivo di genere è superiore di solo il 5%, scatta l’intervento delle autorità competenti, che dovranno intervenire e disporre di sanzioni dissuasive per i datori di lavoro che non lo fanno.
La fine del segreto salariale sarà un problema per aziende e lavoratori
Al di là della questione sociale, ovvero di scoprire che il proprio collega guadagna più di te per motivi legali al genere, nemmeno per i lavoratori la fine del segreto salariale sarà indolore. Molti analisti, come il professor Pietro Ichino, intervistato al Corsera, sono ottimisti dal fatto che i contenziosi non dovrebbero aumentare, ovvero le dispute legali tra le parti chiamate in causa. E questo a riprova del fatto che già si combattevano le discriminazioni di genere in ambito lavorativo, con la legge 125/1991, eppure non c’è stato un aumento del contenzioso. Il rischio semmai è quello “[…] dell’appiattimento dei trattamenti, un po’ come avviene nell’impiego pubblico.”. Un rischio notevole: invece di alzare gli stipendi a chi se lo è sempre visto ridotto per questioni legate al gender, ora tutti lo avranno più basso.
E per quanto già dalla sentenza 303/1989 della Corte Costituzionale, si richiedeva al datore di lavoro di esplicitare i criteri di differenziazione applicati in sede contrattuale, la normativa costringerà le imprese a verbalizzare il motivo delle differenziazioni. Scelta che potrebbe rendere ancora più svantaggioso l’assunzione libera, se comporta il dover scrivere continuamente delle motivazioni salariali. O addirittura evitare quel tipo di contratto che farebbe scattare l’obbligo normativo: la direttiva UE si applicherebbe al momento solo per i “contratti di lavoro o rapporti di lavoro quale definiti dal diritto, dai contratti collettivi e/o dalle prassi in vigore in ciascuno Stato membro, tenendo in considerazione la giurisprudenza della Corte di giustizia” (cit. art. 2). E col vanto di avere oltre il 90% di CCNL applicati tra i dipendenti, non sia mai che questo possa portare ad una riduzione di tali contratti, preferendo altri più “elastici”.