Economia

Sfatiamo il mito: in Italia c’è stata l’austerity?

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La Grande recessione del 2008 e la crisi del debito sovrano nel 2011 ci hanno fatto parlare a lungo di Troika, cioè dell’intervento congiunto del Fondo monetario internazionale, della Commissione europea e della Bce in aiuto degli Stati europei in difficoltà finanziaria, e soprattutto ci ha fatto parlare di politiche di austerità.
Oggi, invece, con una pandemia e una crisi economica in corso si discute di Mes e delle condizionalità da rispettare per poter spendere le risorse rese disponibili dal “fondo salva-Stati”.

All’interno del dibattito, una delle argomentazioni più utilizzate fa riferimento proprio all’austerità, ai ricordi della crisi greca e alle politiche di bilancio che l’Unione europea cerca ancora adesso di imporre ai propri Paesi membri.

Insomma, spesso viene detto che l’Ue ci ha costretti ad anni di politiche economiche restrittive per farci rispettare i parametri di Maastricht e far rientrare il nostro rapporto debito/pil sotto la soglia del 60%.

Quanto c’è di vero in tutto questo? Al di là del dibattito sul Mes, abbiamo di fronte un mito da sfatare.

La Grande recessione e le politiche di austerità

Con la crisi economica e l’esplosione dei tassi di interesse sui titoli di stato, alcuni Paesi europei (Italia inclusa) si trovarono in grossa difficoltà nel collocare sui mercati finanziari i titoli del loro debito pubblico: nel 2011 una crisi di sfiducia portò il tasso di rendimento richiesto dai mercati ad aumentare in modo preoccupante, tanto che in Italia questo condusse alla nascita di un governo tecnico, con lo scopo di persuadere i mercati che il nostro Paese non avrebbe avuto problemi di solvibilità.
Per essere più chiari: con la parola “austerità” si fa riferimento a delle misure di politica economica restrittive volte a ridurre il deficit pubblico, cioè l’ammontare di nuovo debito fatto annualmente dalle pubbliche amministrazioni per riprendere il controllo sulla gestione del proprio debito pubblico.

Per raggiungere il pareggio di bilancio e fermare l’aumento del debito pubblico ci sono essenzialmente due strade, che non si escludono a vicenda.
La prima strada agisce sulle uscite e consiste nel contenere la spesa pubblica, tagliando se necessario servizi forniti o posticipando investimenti.
L’altra strada invece agisce sulle entrate: consiste nell’aumentare tasse e imposte, per avere più denaro con cui coprire i buchi di bilancio. Come si può facilmente intuire, quelle di austerità sono misure poco piacevoli da attuare, che spesso portano rabbia e malcontento nell’elettorato.

I parametri di Maastricht, invece, sono dei valori economici che gli Stati membri della zona euro devono rispettare, per garantire ai loro partner la stabilità economica dell’unione monetaria. Previsti dall’omonimo trattato firmato nel 1992, i più famosi sono i limiti del 3% e del 60%, che rappresentano le soglie massime di deficit e debito pubblico rispetto al Pil raggiungibili da un Paese firmatario.
Come vedremo, il criterio usato dalle istituzioni europee per decidere se approvare o meno i bilanci nazionali non ha ormai più nulla a che vedere con questi parametri.

Quando si parla di “austerity” in Italia ci si ricollega immediatamente al governo Monti e alle rispettive misure di politica economica. Inoltre, l’ingerenza delle istituzioni europee è molto sentita nel nostro Paese, dove sentiamo spesso dire che ci siano state imposte delle misure di contenimento del debito eccessivamente restrittive (austerità).

Ma guardiamo qualche dato.

Dando un primo sguardo al grafico possiamo sfatare la prima parte del mito: l’austerità in senso stretto, e cioè in riferimento a politiche economiche restrittive volte alla riduzione del rapporto debito/pil, in Italia non c’è stata.
Il deficit pubblico rispetto al pil è sempre stato positivo, e il pareggio di bilancio non si è davvero mai visto nonostante l’Italia presenti un avanzo primario (entrate statali – uscite con l’esclusione della spesa per gli interessi sul debito) dal 1991, tranne che nel 2009 in occasione della recessione seguita al fallimento della Lehman Brothers.

Il deficit del grafico prende in considerazione la spesa totale, e di conseguenza include anche le spese per interessi che l’Italia deve sborsare per poter collocare i propri titoli del debito pubblico: gli interessi sono un costo strutturale per chiunque prenda in prestito dei soldi, non sono una voce straordinaria e vanno tenuti in conto se si vuole osservare la reale situazione finanziaria del Paese.
Dall’altro lato il rapporto debito/pil è sempre rimasto ben lontano dal limite del 60% (il limite teorico imposto dai trattati) e, al contrario, a partire dal 2008 non ha fatto altro che aumentare.
Va considerato che l’aumento impressionante dell’indice del deficit nel 2008 è dato dal crollo della produzione durante la crisi (cioè del pil), e non da una politica di bilancio sgangherata, e lo stesso vale per la spesa pubblica totale.

Questo non significa che l’austerity, intesa in senso allargato come politiche di riduzione della spesa e aumento delle tasse, in Italia non ci sia mai stata: le politiche di austerità si possono circoscrivere in quei 4 anni, dal 2009 al 2012, dove la spesa e il deficit rispetto al pil sono diminuiti.
Specialmente nel 2011, col decreto “Salva Italia”, sono stati effettuati 13 miliardi di tagli alla spesa pubblica, mentre ne sono stati aggiunti 18 di nuove tasse. Di questi soldi, 20 miliardi sono stati utilizzati per ridurre il disavanzo dei bilanci pubblici (mostrato dalla linea rossa nel grafico).

I dati, però, mostrano senza ambiguità che al di là della bontà o meno delle misure intraprese, più che delle politiche economiche restrittive (saldo positivo nel bilancio o diminuzione del rapporto debito/pil) sono stati attuati degli aggiustamenti al crollo del pil delle precedenti politiche espansive. Il deficit è sempre rimasto positivo e il rapporto debito/pil ha proseguito indisturbato nella sua crescita.

L’Ue e il mito dei parametri inviolabili di Maastricht

Eppure il nostro bilancio viene approvato tutti gli anni dalla Commissione europea, nonostante il limite del 60% citato prima si allontani di anno in anno. Ecco qui il nostro mito da sfatare: l’Europa non ci impone di rispettare in modo arbitrario i parametri economici di Maastricht, il debito/pil continua a crescere e il deficit ha spesso superato la famosa soglia del 3%, anch’essa stabilita dai trattati. Per rispettare gli accordi presi con i nostri partner in ambito di politica fiscale non ci viene chiesto di fare l’austerità.

Per quanto riguarda quella, semmai, dobbiamo prestare attenzione agli umori dei nostri creditori.
Non ci è mai stato imposto dall’Ue di ridurre drasticamente il nostro debito in qualche anno: l’obiettivo delle autorità europee è impedire che quest’ultimo continui ad aumentare, spingendo in direzione di un contenimento di lungo periodo dove inizialmente la crescita del debito rallenta, e solo successivamente il rapporto debito/pil inizia a decrescere, anno dopo anno.

Anche nel caso del decreto “salva Italia” a spingere il governo a quelle drastiche misure furono la sfiducia dei mercati finanziari e quella dei sottoscrittori del nostro debito pubblico (gli aumenti dello spread), non la Commissione europea.
L’attività dell’Ue sulle nostre finanze la si vede bene nel trend della linea rossa nel grafico che mostra il deficit in lenta ma costante discesa, soprattutto grazie agli interventi “soft” della Commissione europea all’interno dell’iter di approvazione del bilancio pubblico annuale (previsto dai trattati).

Interventi che non hanno mai imposto drastici tagli alla spesa pubblica o aumenti improvvisi delle imposte. Una discesa, tra l’altro, che dovrà andare in pausa nei prossimi anni, dato che le stime Ue prevedono un balzo del debito/pil: dal 134% nel 2019 al 158,9%, e solo guardando a questi dati sembra che i parametri di Maastricht più che messi da parte si siano proprio estinti.

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