Siena e il declino inevitabile. La bolla è scoppiata e la Fondazione rischia il default
La città “acchiocciolata” come i suoi palazzi, secondo la definizione di Siena data da Guido Piovene, si risveglia d’autunno coventrizzata a piangere i suoi cari: prima il babbo Monte, ora la mamma Fondazione.
Lacrimano inconsolabili all’Accademia dei Fisiocratici come all’Associazione Basketball Generation, al Circolo degli Uniti come alla Fondazione Siena jazz o all’Associazione Amici miei, che sembra ispirata al Tognazzi della supercazzola.
E alti lai si elevano anche oltre i confini cittadini, dove la rugiada di contributi si posava benefica da interi lustri. Non solo in Toscana, ma in ogni parte d’Italia. E qualche volta all’estero, come nel caso dell’Arciconfraternita di Maria SS. Del Soccorso di Montecarlo.
Non potrà più acquistare calzature, bandiere e armature medievali, per dire, l’Associazione dei Cavalieri di Santa Fina di San Gimignano e perderanno finanziamenti anche la Fondazione Notte della Taranta di Melpignano (Puglia) e la Fondazione Ravello(Campania) dell’onorevole Renato Brunetta, che colà possiede una delle sue ville.
Ma, a parte le migliaia di piccoli contributi clientelari spesso folcloristici distribuiti a pioggia, soffrirà davvero tutta la città sotto la frana di quel blocco di potere che ha visto uniti per decenni politica e banca, chiesa e massoneria, ex comunisti e berlusconiani.
Soffriranno il Comune e l’università, l’azienda ospedaliera e le contrade del palio. Per farla breve, dieci anni fa la Fondazione di controllo del Monte dei Paschi, di Siena valeva 12 miliardi di euro.
Oggi dopo una gestione dissennata che ha permesso lo scandalo della terza banca italiana, vale poco più di 600 milioni e ha un indebitamento di quasi 400 milioni. Per un decennio la città è vissuta acchiocciolata dentro “una bolla“, come la chiama l’ex sindaco e dirigente del Monte, Pierluigi Piccini, adagiata in un benessere costato alla Fondazione almeno un miliardo e su una presunta diversità culturale, che hanno nascosto i peccati del sistema fondato sulla “concertazione” politica e traversato dalla corruzione. Ora il sistema di governance si è rotto e sta producendo un doloroso divorzio tra la Fondazione e il Monte.
Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, presidente e amministratore delegato della banca succeduti alla banda senese del 5%, hanno accelerato le procedure per l’aumento di capitale di 2,5 miliardi.
Ma la Fondazione, primo socio al 33,4%, rischia il default, se non vende e ripaga i debiti prima dell’aumento. Profumo e Viola vogliono andare in porto con l’operazione entro il 20 febbraio per poterla presentare con i conti del terzo trimestre 2013.
“Seguiremo il Codice civile facendo l’interesse del cento per cento dei soci”, dicono i due banchieri di lungo corso, uno affezionato elettore delle primarie del Pd, l’altro più vicino al mondo cattolico. Ma il trentatrè per cento replica: “Così ci ammazzate, lasciateci respirare prima di varare l’aumento di capitale”. Almeno fino alla fine del 2014, come chiede l’Unione europea.
A rappresentare la quota di controllo a palazzo Sansedoni, c’erano fino a ieri ligi funzionari politici, che alla banca non davano ordini, ma ne ricevevano. Papale papale, ha confessato il vecchio presidente Gabriello Mancini: “Noi obbedivamo alle direttive degli enti che ci hanno nominato”.
Cioè la politica, locale e nazionale. Non soltanto i Ds e poi il Pd, ma anche il Pdl che nel consiglio della banca ordinò a Mancini di collocare Andrea Pisaneschi e Carlo Querci, su indicazione di Gianni Letta, Denis Verdini e Silvio Berlusconi.
Adesso nella sede della Fondazione è arrivata una marziana. Antonella Mansi, classe 1974, grossetana, vicepresidente della Confindustria. Grosseto è a un tiro di schioppo da Siena, ma si sa come sono i senesi acchiocciolati nelle loro mura.
Hanno guardato con curiosità mista a sufficienza la ragazza tosta venuta dalla Maremma. Ma ora che lei ha gettato il guanto ai carissimi nemici del babbo Monte che vogliono far fuori mamma Fondazione, il clima di sospetto si è attenuato.
Lei giura di non aver partito se non l’aquila confindustriale e, per la verità, rifiutò la proposta di Denis Verdini che la voleva candidata del Pdl alla presidenza della Toscana. Ma da quando ha dichiarato di volersi ribellare al Monte è successo di tutto.
Si è dimesso il suo vicepresidente Giorgio Olivato, che avrebbe dovuto prendere il posto del direttore generale Claudio Pieri, partecipe del passato governo della Fondazione. E hanno cominciato a circolare dietrologie sulla costruzione di un nuovo blocco di potere catto-confindustriale alternativo a quello diciamo post comunista e catto-massonico, che a Siena, tra sinistra e destra, ha governato per decenni.
Realtà o fantasia senese, in una città che rischia di affondare trascinata dalla sua banca che un tempo aveva diritto di vita e di morte sui suoi dipendenti e anche sui suoi correntisti?
La Mansi, in realtà, da noi interrogata sulla lite in famiglia con Profumo, ci è apparsa perfettamente consapevole del fatto che la Fondazione che presiede ha allevato per anni galline dalle uova di pietra, badando soltanto ai dividendi, senza mai interrogarsi sulla loro sostenibilità e rinunciando alla diversificazione degli investimenti. Chiede soltanto più tempo per attuare l’exit strategy.
E’ un problema di tutte le Fondazioni bancarie, che a Siena è più grave che altrove. La marziana di palazzo Sansedoni sa che qui bisogna sporcarsi le mani e non intende tirarsi indietro. Si trova così di fronte a un bivio.
Sa benissimo che l’unica scelta che ha di fronte è la vendita di azioni della banca per salvare il salvabile. Ma cercando in tutti i modi di evitare la morte per soffocamento nel giro di poche settimane.
“E’ questa ormai – ha scritto l’economista Marco Onado – l’unica strada per assicurare che le erogazioni di carattere sociale possano mantenere una dimensione accettabile. E tanto più le prospettive della banca sono precarie, tanto più una exit strategy si impone”.
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