(WSI) – Perché la politica economica abbia successo, non è indispensabile che i governanti conoscano l’economia. E’ necessario, invece, che essi sappiano trasformare il clima generale del Paese, affermare valori, indurre a determinati comportamenti coloro che, tutti i giorni, prendono decisioni economiche. Valutata con questo parametro, la politica economica del presidente Reagan si è rivelata straordinariamente efficace; ha però comportato costi e rischi assai elevati. A differenza del suo predecessore, Carter, uomo della gradualità e del compromesso, l’azione economica di Reagan fu caratterizzata dal decisionismo. Quando fu eletto, nel 1980, la crescita della produzione negli Stati Uniti era pressoché nulla, l’inflazione raggiungeva il 13 per cento e un americano su 15 era disoccupato.
Il neo-Presidente non ebbe esitazioni nel dare il suo assenso a una radicale, rapida e brutale cura disintossicante: nel giro di due anni, la produzione era scesa fortemente, quasi un americano su 10 era disoccupato, i salari orari reali e il costo del lavoro avevano subito un brusco taglio, ma l’inflazione si era ridotta a poco più del 3 per cento. Dopo il 1982, la produzione riprese a salire e la disoccupazione a scendere (anche se i salari orari reali continuarono a ridursi per altri dieci anni) e da allora l’inflazione non ha più costituito un vero problema per gli Stati Uniti.
Per realizzare questa politica, Reagan non esitò a porsi apertamente contro il mondo sindacale. Nei primi tempi della sua Presidenza, rispose a uno sciopero dei controllori di volo con il licenziamento di tutti gli scioperanti, nessuno dei quali fu più riassunto; il sindacalismo americano scomparve come grande forza organizzata a livello nazionale e questo spianò la via a una colossale ristrutturazione dell’industria, con il licenziamento di milioni di persone dalle grandi imprese (i quali trovarono generalmente un nuovo lavoro, ma a salari più bassi). In questo modo, Reagan non solo accentuò lo spostamento già in atto nella distribuzione dei redditi in senso antiegualitario, ma ne fornì anche una legittimazione: era sacrosanto che i ricchi diventassero più ricchi perché solo così si sarebbe riavviato il meccanismo della crescita.
L’interesse privato dei ricchi veniva considerato coincidente con l’interesse pubblico e pertanto andava incoraggiato con la riduzione dell’azione dell’Antitrust, l’attenuazione dei vincoli ecologici e con agevolazioni fiscali: la riduzione delle aliquote fiscali per i redditi elevati avrebbe stimolato la crescita e quindi comportato maggiori introiti per lo Stato. E’ questa l’essenza dell’impostazione economica di Reagan, la cosidetta reaganomics.
Reagan fu quindi il presidente dei ricchi, che sostenne con aperto candore e dai quali fu a sua volta sostenuto con entusiasmo. In realtà, la detassazione non diede i risultati sperati, il deficit pubblico aumentò vistosamente, l’incidenza del debito pubblico sul prodotto lordo, pari a poco più del 20 per cento all’inizio della presidenza Reagan, era quasi raddoppiata alla fine. E questo perché i ricchi, più che investire, aumentarono i consumi. La voglia americana di consumo e la forza del dollaro, che rendeva poco competitive le merci americane, contribuì alla creazione di un parallelo deficit commerciale di enormi proporzioni. L’America di Reagan riuscì tuttavia a far ripartire la crescita perché, tassando poco i capitali e difendendo la ricchezza, gli Stati Uniti attiravano fondi da ogni parte del mondo i quali finanziavano così l’espansione americana.
Mentre i suoi consiglieri proclamavano la morte dell’economia keynesiana, l’amministrazione Reagan realizzava forse la maggior manovra keynesiana della storia: espandeva l’economia gonfiando il deficit pubblico e il deficit estero. La lunga espansione reaganiana ha tutte le caratteristiche delle «riprese drogate» europee, eccetto il tipico surriscaldamento inflazionistico. Reagan riuscì a evitare l’inflazione grazie a due fattori: l’afflusso di capitali dall’estero che, tenendo elevato il cambio del dollaro, riempiva i negozi americani di prodotti stranieri a buon mercato e la distruzione delle rigidità del lavoro, che consentiva di pagare bassi salari. Almeno la prima di queste condizioni non sarebbe stata realizzabile al di fuori degli Stati Uniti.
A posteriori, la politica economica di Reagan non può non essere definita molto rischiosa, in quanto introdusse ulteriori elementi di disparità economico-sociale nella già dura società americana e di squilibrio finanziario nell’economia mondiale. Se gli anni di Reagan sono quelli in cui l’America riprende la via dello sviluppo (grazie a nuovi imprenditori come Bill Gates più che ai vecchi ricchi, che in quegli anni dissestarono le Savings & Loans, le casse di risparmio americane) sono anche quelli dei mendicanti che dormono in scatole di cartone sui marciapiedi dei grattacieli di Manhattan.
Che le cose abbiano avuto un seguito complessivamente positivo è dovuto a sviluppi che lo stesso Reagan e i suoi collaboratori avevano previsto solo in piccola parte: le dimensioni del successo tecnologico americano, che aprì la strada a una crescita economica più sana negli anni di Bush e di Clinton e il collasso dell’Unione Sovietica che modificò il quadro mondiale. Nelle cose umane, però, come insegna Machiavelli, la «fortuna» ha tanta importanza quanto la «virtù»; e non c’è dubbio che Reagan sia stato un presidente molto fortunato.
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