Stipendi italiani: in media i francesi guadagnano 10 mila euro in più all’anno, i tedeschi 15 mila
Nonostante il lieve aumento, resta confermato anche nel 2021 il profondo gap tra gli stipendi italiani e quelle delle maggiori economie europee. È quanto emerge dall’ultima analisi condotta dalla Fondazione Giuseppe Di Vittorio (FDV) su dati dall’Ufficio statistico dell’Unione Europea (EUROSTAT) e sui dati fiscali pubblicati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF).
Dall’analisi dei dati relativi al 2021 risulta, rispetto al 2020, un aumento del salario lordo annuale medio che è stato più marcato in Italia, anche perché nel primo anno della pandemia il nostro Paese aveva sofferto la maggiore diminuzione. Pur osservando un recupero rispetto al 2020, se si confronta lo stipendio lordo annuale medio del 2021 con quello del 2019 risulta come il divario salariale tra Italia, da una parte, e Francia e Germania, dall’altra, si sia ulteriormente ampliato: la differenza con lo stipendio francese è aumentata da -9,8 mila a -10,7 mila e con quello tedesco è cresciuta da – 13,9 mila a -15,0 mila euro.
Confrontando il 2021 con il 2019 si può osservare come la Spagna e l’Italia non abbiano ancora recuperato il livello salariale medio precedente l’emergenza pandemica mentre in Francia, in Germania e nella media dell’Eurozona l’aumento sia stato del +2,0% e più.
Che cosa c’è dietro la stagnazione degli stipendi reali
La stagnazione degli stipendi reali che affligge l’Italia da decenni – secondo quanto riporta l’analisi – può essere letta anche attraverso la differente composizione della forza lavoro occupata che rispetto alle altre principali economie europee, si caratterizza per una maggiore partecipazione dei segmenti meno qualificati e per una ridotta presenza delle professioni più qualificate.
Nel 2021 l’Italia ha la quota di dirigenti (1,4%) e di professioni intellettuali e scientifiche (13,6%) più bassa; di contro, la percentuale relativa alle professioni non qualificate è pari a 13,0%, nettamente sopra la stessa quota registrata in Germania, in Francia e nell’Eurozona e poco sotto quella spagnola.
Ma non è solo questo. Nel 2021, secondo Fondazione Giuseppe Di Vittorio, il basso livello salariale deriva da altri fattori:
- la quota di dipendenti a termine sul totale dipendenti ha raggiunto il 16,6% (inferiore solo a quella spagnola) e la percentuale di occupati a part-time involontario sul totale degli occupati a tempo parziale si è attestata al 62,8%, un livello superiore rispetto agli altri Paesi europei e alla media dell’Eurozona;
- si è verificata una diminuzione dei lavoratori che hanno dichiarato soltanto redditi da lavoro dipendente o soltanto reddito da lavoro dipendente associato a reddito da fabbricati/terreni, pari a -185,4 mila nel 2021 rispetto al 2020.
- più di un dipendente su quattro (oltre 5,2 milioni, pari al 26,7%) ha dichiarato meno di 10 mila euro e quasi tre su quattro (circa 14,4 milioni, pari al 73,2%) fino a 26 mila euro, vale a dire meno del salario lordo annuale medio del 2020 (pari a 27,9 mila euro).
“Da questa nostra ricerca emerge per l’Italia un preoccupante quadro per gli stipendi che nel 2021 registra un peggioramento delle divergenze rispetto alla Germania, Francia ed Eurozona. Sul livello del salario lordo annuale medio italiano incide sia la forte discontinuità lavorativa che la maggiore presenza delle qualifiche più basse. Queste ultime due caratteristiche del nostro mercato del lavoro sono il risultato di un sistema produttivo con bassa propensione all’innovazione e orientato a guadagnare competitività attraverso la riduzione dei costi di produzione, soprattutto tramite la compressione salariale, in particolare nelle micro e piccole imprese collocate in settori a basso valore aggiunto.
L’inequivocabile segnale della debolezza strutturale della domanda di lavoro espressa dalle imprese italiane è rappresentato dal crescente peso dell’occupazione a termine e del part-time involontario, due condizioni che i lavoratori e le lavoratrici subiscono e non scelgono” dicono dalla Fondazioe Giuseppe Di Vittorio, “Tutti questi elementi segnalano la necessità e l’urgenza di affrontare la questione salariale insieme al tema della qualità dell’occupazione. Per ridurre la diffusa e crescente precarietà – che ad aprile del 2022 ha toccato la drammatica quota di quasi 3,2 milioni di occupati a termine, la più alta mai registrata dal 1977 (ISTAT, 2022) – è fondamentale un intervento che diminuisca il numero di contratti non standard e ne limiti l’utilizzo, ridando centralità al contratto a tempo indeterminato e all’occupazione stabile. Inoltre, è indispensabile un intervento di politica economica che punti aumentare la qualità dell’occupazione attraverso la creazione, diretta ed indiretta, di posti di lavoro standard, a partire dai settori a più alto valore aggiunto”.