ROMA (WSI) – Non è una novità che il fisco assuma un rilievo determinante in campagna elettorale. Basta ricordare quel che accadde nel 2008, con la mossa a sorpresa di Silvio Berlusconi sull’Ici. Gli schieramenti che si contendono la vittoria alle elezioni di domenica e lunedì sono andati molto oltre. Con quali margini concreti di fattibilità?
La premessa è che la pressione fiscale, avviata a superare il record storico del 45,3% (e stiamo parlando del dato fotografato dalle statistiche ufficiali), deve essere ridotta, soprattutto per quel che riguarda il peso del fisco sul lavoro e sulle attività produttive, oltre che sui redditi di chi le tasse le paga regolarmente. La realtà, almeno per l’anno in corso, è che con l’economia in piena recessione e con i vincoli imposti dal nostro enorme debito pubblico (dagli 80 ai 90 miliardi l’anno di spesa solo per interessi passivi), molte delle promesse di riduzione delle tasse sono destinate a restare tali. Una sorta di libro dei sogni, che se andrà bene potrà essere riaperto a partire dal prossimo anno, a patto che nel frattempo cominci a spirare almeno un primo vento di ripresa.
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Il monologo di Bisio a Sanremo 2013
Invece di lanciarsi in una affannosa rincorsa a intervenire sull’Imu, sarebbe stato preferibile, e certamente più realistico, ammettere che nel 2013, se andrà bene, si potrà cercare di evitare l’aumento dell’Iva dal prossimo 1° luglio e cominciare a impostare un credibile e graduale percorso di riduzione delle tasse a beneficio dei redditi e del lavoro, da realizzare nell’arco dell’intera prossima legislatura.
Un report pubblicato ieri da «Mediobanca Securities» segnala che le promesse elettorali in campo fiscale, se realizzate, comporterebbero tagli alle tasse tra i 150 e 225 miliardi ma in verità «Imu, Irpef, Iva e Tares sono destinate a crescere a partire da luglio 2013 a causa di impegni presi in precedenza». Se sommiamo le proposte complessive, in effetti arriviamo nei dintorni dei 180 miliardi in cinque anni. Cifre incompatibili con lo stato attuale dei nostri conti. Tra le prime incombenze che il nuovo governo si troverà ad affrontare compare l’aggiornamento del quadro macroeconomico. La contrazione del Pil viaggia attorno all’1%, contro lo 0,2% indicato dalla Nota di aggiornamento del «Def» di settembre. Per lo scorso anno, il dato certificato dall’Istat è di una caduta del prodotto del 2,2 per cento.
Siamo in buona compagnia in Europa, come hanno appena certificato le stime di Eurostat, con la non trascurabile differenza che la nostra economia è ferma da oltre un decennio, che il debito pubblico raggiungerà quest’anno il picco del 126,1%, e che il deficit (al netto delle variazioni del ciclo) è destinato a crescere rispetto all’attuale target dell’1,8 per cento. L’impegno sottoscritto dal governo Berlusconi e confermato dal governo Monti al pareggio di bilancio in termini strutturali non è in discussione. In linea con la lettera inviata la scorsa settimana dal commissario agli affari economici, Olli Rehn, si potranno concordare tempi di rientro meno stringenti, ma non per questo saremo esentati dal conseguire avanzi primari del 4-5% del Pil, condizione indispensabile per ridurre gradualmente il debito e assicurarne la sostenibilità nel medio periodo.
Con la recessione in atto e il lavoro che non c’è, a Bruxelles non tira certo aria per richieste di ulteriori manovre depressive. Bastano per quel che ci riguarda le tre maxi-manovre, le prime due (luglio e agosto 2011) varate dal governo Berlusconi, la terza, dicembre (il decreto salva-Italia) dal governo Monti. Tre manovre per un valore complessivo a regime di 81,3 miliardi, pari al 4,9% del Pil, concentrate per oltre due terzi su aumenti delle entrate. Nonostante questo ingente sforzo di consolidamento fiscale, non si potrà deviare dal percorso di rigore nei conti pubblici, per effetto dell’ingente debito e delle perduranti incertezze sul fronte dello spread. Senza considerare che, dopo aver ridefinito il quadro di riferimento, il nuovo governo dovrà reperire risorse sia per finanziare nuove spese per gli ammortizzatori in deroga e le missioni internazionali (finanziate solo fino a settembre), e trovare 4 miliardi a regime per evitare l’aumento dell’Iva. In tutto, almeno 7 miliardi.
Robusti piani di riduzione fiscale possono essere finanziati solo attraverso contestuali, massicci risparmi sul fronte della spesa corrente primaria e il recupero di base imponibile per effetto della lotta all’evasione. Due operazioni doverose, ma che per dispiegare a pieno i loro effetti (ed essere correttamente contabilizzate) non potranno che articolarsi su un orizzonte temporale pluriennale. Se attuata in toto, la manovra sull’Imu indicata da Berlusconi per la prima casa (restituzione di quanto versato nel 2012 e abolizione nel 2013) comporterebbe un immediato minor gettito di 7,8 miliardi, che evidentemente andrebbe coperto subito con altrettanti tagli alla spesa. Il ricorso ad altre forme di copertura, come l’aumento dell’accisa sui tabacchi e sull’alcol (se pur legittima e “mirata”) si trasformerebbe in un’altra forma di prelievo. L’azzeramento in 5 anni dell’Irap comporterà il reperimento di ulteriori 34-35 miliardi a regime e la manovra sull’Irpef (due aliquote del 23% fino a 43 mila euro e del 33%) altri 22 miliardi dal 2014.
Gli interventi di riduzione della pressione fiscale indicati dalla Lista civica che fa capo a Mario Monti, relativamente a Imu, Irap e Irpef, comporterebbero 29,5 miliardi di minori imposte. Per il 2013, si potrebbero reperire 2,5 miliardi per aumentare da 200 a 400 euro la detrazione Imu sulla prima casa e raddoppiare la detrazione per i figli a carico, ammesso che – come indicato dal dossier – si riesca a contenere la spesa corrente primaria per 3 miliardi. La partita più complessa si annuncia dal 2014 (e dunque da mettere in campo alla fine del 2013) con interventi sulla totale indeducibilità del costo del lavoro dalla base imponibile dell’Irap, e sull’Irpef a valere sui redditi medio bassi, sia con riduzione delle aliquote che con l’aumento delle detrazioni.
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