Economia

Taiwan: ecco perché il voto del 13 gennaio influirà sul mondo

Domani, sabato 13 gennaio, rappresenta un momento senza precedenti per Taiwan, che andrà al voto per scegliere il suo nuovo presidente e rinnovare il Parlamento. Un’elezione che rischia di diventare, questa volta più che mai, un referendum sui rapporti con l’ingombrante gigante, la Cina. Un referendum, come lo estremizzano i due principali schieramenti, tra “pace e guerra” per il Kuomintang (KMT) all’opposizione, il partito storico precedentemente guidato dal Generale Chiang Kai-shek, noto per essere più orientato al dialogo con la Cina, tra “democrazia e autoritarismo” per il partito al governo. Partito, quello democratico-progressista (DPP), che dopo due mandati e otto anni al comando deve fare i conti con un po’ di fisiologica “stanchezza” da parte dell’elettorato. Ma la corsa quest’anno non è più a due. Il terzo incomodo sarà il Partito Popolare (TPP), che sta attirando sempre di più i giovani stanchi della vecchia politica. Queste elezioni, assieme a quelle statunitensi ed europee, saranno le più importanti del 2024, perché serviranno a comprendere non solo l’evoluzione delle relazioni tra le due sponde dello Stretto, ma anche le possibili conseguenze per le due superpotenze globali, la Cina e gli Stati Uniti. Pechino, che da oltre 70 anni rivendica Taiwan come una “provincia ribelle” da riunificare con la madrepatria, è interessata a capire la direzione futura, mentre Washington continua a essere il “garante” della vecchia Formosa, fornendo armi per potenziare le difese dell’isola. Anche senza lo scudo americano, la posizione della politica taiwanese è chiara: difendere la sua piena democrazia, ridurre il rischio di un’invasione, sperando di non essere lasciata sola e che così la Cina faccia bene i conti con il disastro che comporterebbe una guerra. Secondo i sondaggi diffusi dai media dell’isola infatti, quasi il 90% dei taiwanesi vuole mantenere lo status quo, l’indipendenza di fatto (il 62% dei taiwanesi si dichiara “solo taiwanese”, il 30% sia taiwanese sia cinese e soltanto un residuale 3% cinese).

Vediamo chi sono i candidati e le implicazioni geopolitiche a livello globale.

Lai Ching-te, il favorito dai sondaggi

A guidare questa corsa a tre è Lai Ching-te, del DPP, attuale vicepresidente di Taiwan. Sessantaquattro anni, ex medico, prima di diventare vicepresidente dell’isola nel 2020 è stato deputato e sindaco per due mandati di Tainan, città nel Sud. Negli ultimi tempi ha rivisto le sue posizioni più radicali a sostegno dell’indipendenza e dice di essere disposto a dialogare con Pechino, a patto che le condizioni siano adeguate.
Pechino definisce il candidato del DPP un “grave pericolo”. Se eletto, Lai si affiderà all’America per rafforzare la fragile sovranità di Taiwan e ha promesso di ridurre la sua dipendenza economica dalla Cina: spera che l’isola possa firmare più accordi commerciali con l’estero e stringere più “partnership con le democrazie di tutto il mondo”. Ma afferma di essere ancora aperto al dialogo con la grande potenza al di là dello Stretto. Dialogo che tra Pechino e il DPP non esiste da otto anni.
Come vice si è scelto Hsiao Bi-khim, fino allo scorso novembre ambasciatrice de facto di Taiwan a Washington: già sanzionata in passato da Pechino, bollata come “pericolosa separatista”.

Hou You-ih, il favorito dalla Cina

Candidato dal Kuomintang, il partito più incline al dialogo con la Cina, che pur vuole mantenere lo status quo, è invece Hou You-ih. Figlio di un venditore di carne di maiale nella contea di Chiayi, sulla costa occidentale, il 66enne Hou è stato capo della polizia dell’isola e attualmente sindaco in aspettativa, molto popolare, di Nuova Taipei. L’ex super-poliziotto che sogna di diventare presidente fonda la sua strategia su tre D: deterrenza, dialogo e de-escalation. Si dice contrario ad una dichiarazione formale di indipendenza, rifiuta la formula di Pechino “un Paese, due sistemi” (la stessa di Hong Kong), “ma con la Cina bisogna parlare, e noi siamo gli unici in grado di farlo”. Dice che la salvaguardia della Repubblica di Cina, lo Stato che il KMT ha portato a Taiwan nel 1949 dopo la sconfitta dei nazionalisti nella guerra civile cinese (e che è ancora il nome ufficiale dell’isola), sarà il suo impegno costante. Pur essendo esperto di governance locale e questioni di sicurezza, Hou ha molta meno esperienza sulla scena internazionale. Pechino ovviamente preferirebbe di gran lunga una vittoria del Kuomintang, che ha ripetuto in questa campagna la sua pericolosa narrativa: un voto per il DPP porta alla guerra.

Ko Wen-je, il “populista” che piace ai giovani di Taiwan

Terzo incomodo è Ko Wen-je. Ex sindaco della capitale Taipei, prima di entrare in politica dieci anni fa faceva il chirurgo. Dopo aver oscillato tra i due principali partiti, nel 2019 ha fondato il TPP, partito centrista dalle ricette populiste. Che sta guadagnando terreno tra i più giovani. Ko si discosta dai binomi “democrazia o autocrazia” e “guerra o pace” e afferma che le elezioni sono invece una competizione tra “nuova e vecchia politica”. La tradizionale base di sostegno di Ko è nel nord del Paese, grazie al periodo in cui è stato un popolare sindaco indipendente di Taipei per otto anni. La sua popolarità (ha oltre un milione di follower su Instagram) resiste nonostante le sue frequenti gaffe. A ottobre dello scorso anno ha paragonato le relazioni tra le due sponde dello Stretto al cancro alla prostata: metafora sulla necessità di coesistere con i propri nemici.

I possibili scenari degli esiti delle elezioni a Taiwan

In caso di vittoria, Lai Ching-te promuoverebbe attività separatiste che aumenterebbero le tensioni tra Pechino e Taipei”, ha riferito senza mezzi termini il portavoce dell’ufficio cinese responsabile delle relazioni con Taiwan. Immediata la reazione del ministro degli esteri taiwanese Joseph Wu, che ha replicato: “Pechino dovrebbe smettere d’intromettersi nelle elezioni di altri paesi e cominciare a organizzarle in patria”.

Per gli analisti una vittoria alle elezioni di Lai Ching-te non sarebbe comunque abbastanza per spingere l’Esercito popolare cinese a invadere Taiwan, soprattutto in un periodo complicato in cui cerca invece stabilità. Anche perché comprometterebbe i rapporti con l’Occidente che, pur tra mille equilibrismi, sta cercando di mantenere. Xi preferirebbe di gran lunga vincere senza combattere, come scriveva Sun Tzu ne “L’arte della guerra”. Tuttavia, quel che potrebbe accadere è che il presidente Xi Jinping decida di ribadire la sua forza ad esempio con dei blocchi navali a intermittenza, per mostrare la sua risolutezza all’uomo che Pechino ha definito un “piantagrane”.

Nonostante Pechino mostri i muscoli, qualsiasi azione militare esplicita avrebbe un costo enorme però per la Cina stessa. Lo Stretto di Taiwan gioca un ruolo fondamentale negli scambi commerciali della Cina con il mondo. Bloomberg Economics ha calcolato in 10mila miliardi di dollari il costo potenziale per l’economia mondiale. E Taiwan ha un’enorme importanza strategica come centro di produzione di alcuni dei semiconduttori più avanzati al mondo (l’isola produce il 60% dei semiconduttori mondiali e il 90% di quelli più avanzati).

Per gli elettori taiwanesi non c’è solo la questione Cina in agenda: ma il rallentamento dell’economia, il costo delle case, i salari, l’educazione. La priorità per le questioni economiche è molto forte tra gli elettori sotto i 40 anni.

Una vittoria di Lai potrebbe anche aggravare gli attriti tra Cina e Stati Uniti per il sostegno di Washington a Taiwan. Pechino ha ripetutamente accusato l’amministrazione Biden di “connivenza e sostegno alle forze separatiste ‘indipendentiste di Taiwan’”. Questo metterebbe a dura prova la fragile distensione delle tensioni bilaterali che il presidente Joe Biden e il leader cinese Xi Jinping hanno mediato nel loro incontro a San Francisco a novembre. Washington, nel frattempo, ha fatto sapere che invierà una “delegazione non ufficiale” sull’isola dopo le elezioni. Una decisione accolta negativamente dalla Cina, che ha ribadito senza mezzi termini, tramite la portavoce del ministero degli Esteri Mao Ning, che Pechino “si oppone sempre con decisione a ogni forma di scambio ufficiale Usa-Taiwan”. La portavoce ha anche ricordato che Taipei “è la linea rossa numero uno che non deve essere oltrepassata nelle relazioni tra Cina e Usa“.

Ma uno scenario incerto è anche quello che vede la vittoria di Hou Yu-ih. Pur essendo più aperto al confronto con Pechino, il partito a cui appartiene, il Kuomintang, ha storicamente un rapporto ambiguo con il Partito Comunista Cinese che è passato da alleato nel conflitto contro gli occupanti giapponesi a nemico nella guerra civile di Mao Zedong. Tuttavia, nella convinzione che gli scambi intra-stretto possano dare dividendi economici e politici, l’impegno con la Cina è sempre stata la linea del KMT.

Infine, la politica con Pechino di Ko Wen-je: seguire i principi di “deterrenza e comunicazione” e focalizzarsi sulle questioni relative a salari, carenza di alloggi a prezzi accessibili e scarse prospettive di carriera. Tutti temi sensibili, soprattutto nell’elettorato giovanile, che per ora non bastano a favorirlo nei sondaggi.