Economia

Taiwan: Pechino si scalda per la vittoria di Lai ma temporeggia nel concreto

Lai Ching-te, il candidato del Partito Democratico Progressista (DPP) al governo a Taiwan, ha vinto le elezioni presidenziali, quelle che la Cina aveva presentato come “una scelta tra guerra e pace”. A spoglio quasi ultimato è in testa con il 42% delle preferenze. Staccato il candidato del Kuomintang, il principale partito di opposizione più “aperto” al dialogo con la Cina, Hou Yu-ih, che ha ottenuto il 33,4% dei voti, mentre Ko Wen-je del Partito Popolare dell’isola (TPP) il 26,5%.

Il popolo taiwanese ha resistito con successo agli sforzi di forze esterne per influenzare le nostre elezioni”, è stato il primo commento di Lai Ching-te, con un palese riferimento alla Cina. Poi i ringraziamenti al popolo taiwanese (poco meno di 20 milioni gli elettori su 23 milioni di abitanti), “per aver scritto un nuovo capitolo nella nostra democrazia. Abbiamo dimostrato al mondo quanto la abbiamo a cuore e questo è il nostro impegno incrollabile. Taiwan ha ottenuto una vittoria per la comunità delle democrazie”.
Poi si è detto “determinato a salvaguardare Taiwan dalle continue minacce e intimidazioni da parte della Cina”, sottolineando che il suo governo cercherà il dialogo piuttosto che lo scontro con Pechino.

Dialogo che potrebbe essere respinto dai vertici del Dragone a causa dello “scudo” americano di cui gode Taiwan, cioè l’assicurazione di soccorso fornita dagli Stati Uniti (anche con la formula della “ambiguità strategica” che non dice se l’America combatterebbe per Taiwan). Gli Stati Uniti puntano infatti alla continuità nei rapporti con Taiwan e hanno assicurato il nuovo presidente eletto Lai Ching-te che l’impegno verso l’isola è “solido come la roccia, basato su principi, bipartisan e a favore degli amici dell’America”, nonostante Biden non dichiari esplicitamente l’indipendenza dell’isola. Anzi, Biden ha dichiarato che gli Stati Uniti non sostengono l’indipendenza di Taiwan, ribadendo le intenzioni americane di considerare Taiwan non formalmente indipendente (gli USA non hanno mai riconosciuto lo Stato di Taiwan, riconosciuto solo da una decina di Paesi nel mondo) ma neanche annesso alla Cina. In pratica una sorta di limbo.
Per contro, la Cina ha ribattuto e ribadito “totale opposizione contro qualsiasi interazione tra gli Stati Uniti e Taiwan tramite la portavoce del ministero degli Esteri Mao Ning, in merito alla visita in corso a Taipei da parte della delegazione americana non ufficiale composta da ex alti funzionari.
Pertanto, “esortiamo gli Stati Uniti a riconoscere l’estrema complessità e la sensibilità della questione di Taiwan e a rispettare con serietà il principio della Unica Cina e i tre comunicati congiunti sino-americani, attuando le promesse fatte dai leader americani di non sostenere l’indipendenza di Taiwan e il concetto delle due Cine, e non cercare di utilizzare la questione di Taiwan come mezzo per contenere la Cina”, ha concluso Mao.

In realtà il pressing di Pechino su Taipei dura da otto anni, da quando cioè c’è in carica il DPP al governo. Nello specifico, Pechino ha tagliato il dialogo, intimidito militarmente Taipei, punito la “provincia ribelle” con provvedimenti commerciali che ne hanno danneggiato l’economia. Lai deve in qualche modo cercare di riaprire i canali di comunicazione con Pechino, come invocano i partiti di opposizione, ma non potrà ridurre la spesa per la difesa, perché la preparazione dell’isola è la sua unica possibilità di scoraggiare l’invasione cinese.

Ricordiamo che Taiwan riveste una valenza strategica sia per la produzione di semiconduttori (con un peso complessivo di oltre il 60% su scala globale, con in testa Taiwan Semiconductors), sia in ottica geopolitica, dal momento che la sua mancata annessione di fatto ostacola l’ambizione della Cina di diventare una potenza anche sul mare, dove il primato è in mano agli Stati Uniti.

Gli analisti non si aspettano però un’immediata reazione muscolare di Pechino, anzitutto perché la stagione invernale (per quanto mite a Taiwan) non facilita grandi manovre navali nello Stretto. Xi ha comunque mesi di tempo per decidere la risposta: la successione all’attuale presidente Tsai Ing-Wen è già stata fissata per il 20 maggio. In quella data il nuovo presidente eletto Lai Ching-te, che resterà in carica fino a maggio 2028, si insedierà tenendo un discorso programmatico articolato. Bisogna dunque segnare sull’agenda i giorni di maggio, per vedere quale sarà il livello della frustrazione cinese per la vittoria dell’“indipendentista distruttore della pace” che nei prossimi quattro anni guiderà l’isola nella tempesta. E poi, c’è un’altra variabile: gli Stati Uniti stanno entrando in campagna elettorale, Joe Biden deve già gestire la guerra in Ucraina, quella in Medio Oriente e non permettersi un terzo fronte. Ha bisogno di concentrarsi sulle aspettative di politica interna degli americani, se vuole restare alla Casa Bianca. Xi, dunque, ha tutto il tempo per meditare la sua prossima mossa. Ma, nel breve periodo, secondo Antonio Cesarano, Chief Global Strategist di Intermonte,

“la Cina potrebbe orchestrare manovre militari meramente dimostrative e, in parte, anche implementare dazi e/o ostruire i canali di approvvigionamento di Taiwan via via che ci si avvicinerà alla cerimonia di insediamento del neopresidente, prevista per il prossimo 20 maggio. Le eventuali rappresaglie potrebbero riproporre temporaneamente una fase di scarsità relativa di chip, aumentandone i prezzi e, soprattutto, rallentando la filiera produttiva globale, vista l’importanza strategica dei chip”.