ROMA (WSI) – Tanti sono i dubbi nati dalla riforma del lavoro – la quinta in quattro anni in Italia – proposta dal governo Renzi. Con il Jobs Act chi licenzia perderà gli incentivi. Previsto anche un sussidio di disoccupazione legato agli anni di impiego per chi perde il posto.
Due domande sorgono spontanee, tuttavia: basterà un miliardo di euro per le coperture dei sussidi di disoccupazione? E cosa succede a chi cambia lavoro?
E sulle tutele crescenti – tanto lodate dai politici di tutte le fronde – l’impressione è che anche questa volta si sia consumato un “pasticcio all’italiana”. Secondo il giuslavorista Michele Tiraboschi ha vinto il compromesso politico a discapito di una vera riforma.
Il presupposto era e rimane chiaro osserva il professore: “c’è una sfida da cogliere per cambiare un sistema di regole che non funziona più, lo Statuto dei diritti dei lavoratori non rappresenta il mondo nuovo del lavoro e non dà risposte ai giovani disoccupati. Purtroppo a mio giudizio si è scelta la strada di un compromesso politico che sicuramente non risolve nessuno dei problemi per i lavoratori e per le aziende”.
Del Jobs Act ha parlato anche Enrico Marro sulle pagine del Corriere della Sera scrivendo che “Decreto legge o no, quella che ha in mente il governo Renzi è una riforma di sistema che cambierebbe le coordinate del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali”.
Bisogna vedere se cambierà il triste panorama lavorativo in meglio oppure in peggio. La contesa e criticata dai sindacati abolizione dell’articolo 18, cioè del diritto al reintegro nel posto di lavoro per i licenziati senza giusta causa, è solo uno dei tasselli della riforma, dice Marro.
Tuttavia il passaggio è fondamentale per rendere appetibile alle aziende il nuovo contratto di lavoro «a tutele crescenti», rilanciato qualche giorno fa con l’emendamento governo-maggioranza e fulcro del nuovo sistema. In caso di ritardo delle Camere, il governo ci arriverà con un decreto legge.
Il Corriere scrive un’approfondita analisi della riforma, punto per punto. Eccone i dettagli.
Solo due forme di lavoro
Nel nuovo mondo del lavoro che ha in mente Renzi ci sono solo due forme di lavoro: autonomo e dipendente. Quella dipendente, a sua volta, si suddivide in tempo determinato e tempo indeterminato a tutele crescenti. Quest’ultima dovrebbe essere la forma più diffusa, perché l’azienda sarebbe incentivata a ricorrervi. Come? Con uno sconto sul costo del lavoro rispetto a un contratto a termine.
Non solo. Se nella prima fase del contratto a tutele crescenti, poniamo tre anni, l’azienda risolvesse il rapporto di lavoro, dovrebbe restituire allo Stato lo sconto di cui ha beneficiato, perché essendo stato il contratto, alla prova dei fatti, a termine, esso appunto dovrebbe costare di più. Verrebbero così scoraggiati gli imprenditori che volessero fare i furbi mentre i contratti temporanei dovrebbero limitarsi ai soli casi nei quali effettivamente il lavoro si suppone a tempo determinato, per esempio le attività stagionali.
Lavoratori tutti uguali
Essendo i contratti a progetto e le altre forme di precariato cancellate, i lavoratori avrebbero tutti gli stessi diritti (minimi di retribuzione, maternità, ferie, ammortizzatori sociali) secondo il tipo di contratto (a termine o a tutele crescenti). Certo, è vero, a meno di sorprese, dovrebbe restare un nucleo forte di lavoratori protetti dal vecchio articolo 18 (circa 6 milioni e mezzo nel privato), poiché il nuovo contratto a tutele crescenti si applicherebbe solo alle assunzioni successive all’entrata in vigore della legge. Ma il bacino dei tutelati dall’articolo 18, anno dopo anno, dovrebbe restringersi.
E comunque – sostengono i tecnici del governo, replicando a chi dice che così si approfondirebbe la spaccatura tra giovani e anziani – i giovani che verranno assunti col contratto a tutele crescenti avranno una serie di diritti e ammortizzatori che attualmente non hanno, perché non previsti dalle forme di lavoro precarie o perché lavorano in piccole aziende. Mentre oggi infatti solo il 15% delle assunzioni avviene a tempo indeterminato, nel nuovo sistema abbiamo visto che la stragrande maggioranza dei contratti dovrebbe essere di questo tipo.
Le tutele crescenti
Certo, ma «a tutele crescenti», che non equivale all’attuale «posto fisso» (nelle aziende con più di 15 dipendenti), dove l’articolo 18, anche se attenuato dalla riforma Fornero, prevede ancora la possibilità di reintegrare i lavoratori. Nel nuovo sistema, invece, il diritto al reintegro resterebbe solo sui licenziamenti discriminatori (fede religiosa, politica, appartenenza sindacale, razza, eccetera) mentre in tutti gli altri casi l’azienda potrebbe licenziare liberamente il lavoratore dietro pagamento di un’indennità economica crescente in rapporto agli anni di servizio prestati (le ipotesi variano da uno a tre mesi di stipendio per anno di lavoro).
Il nodo politico da sciogliere, soprattutto nel Pd, riguarda che cosa accade passata la prima fase del contratto, che si pensa durerà tre anni e durante la quale nessuno mette in discussione la libertà di licenziamento. La sinistra Pd e sindacale vogliono che, passati tre anni, torni la protezione dell’articolo 18 mentre il Nuovo centrodestra no e insiste per il solo indennizzo crescente. Il resto del Pd si divide tra quest’ultima ipotesi e quella di prevedere l’articolo 18 solo dopo un certo numero di anni di servizio (6-12-15) o una certa età del lavoratore.
I nuovi ammortizzatori
Una volta licenziato il lavoratore, in aggiunta all’indennizzo dall’azienda, avrebbe diritto all’indennità di disoccupazione dallo Stato. Si tratterebbe in pratica dell’Aspi (assicurazione sociale per l’impiego) già prevista dalla riforma Fornero, che però non entrerebbe più a regime nel 2017 ma prima. E che si estenderebbe a una platea più ampia, appunto perché ne avrebbero diritto tutti i lavoratori dipendenti nei quali confluirebbero circa 1,5 milioni di lavoratori attualmente impiegati in contratti a progetto, collaborazioni varie e altre forme di precariato.
Per questo il governo è a caccia di circa un miliardo e mezzo di euro da mettere nella legge di Stabilità per il 2015. L’indennità avrebbe un tetto (per l’Aspi nel 2014 è di 1.165 euro) e una durata massima (potrebbe essere allungata da 18 a 24 mesi). I beneficiari dovrebbero però accettare le offerte di formazione e di lavoro congrue, altrimenti perderebbero l’assegno.
Sparirebbero prima del previsto la cassa integrazione in deroga e l’indennità di mobilità. Via anche la cassa integrazione per chiusura di aziende. Resterebbe solo la cig ordinaria per momentanei cali di produzione e quella straordinaria per ristrutturazioni aziendali, che però potrebbe essere attivata solo dopo aver attuato riduzioni dell’orario. Il tutto finalizzato a limitare il ricorso alla cig solo ai casi di stretta necessità. Essa potrebbe essere estesa in qualche forma anche alle piccole imprese, che finora hanno beneficiato della cig in deroga a spese dei contribuenti. In questo caso dovrebbero invece pagare i contributi”.