Economia

Tassa extraprofitti banche: Intesa e Unicredit tracciano la via

Dopo Unicredit, anche Intesa Sanpaolo ha fatto sapere che non verserà la tassa sugli extraprofitti delle banche, avvalendosi della facoltà, prevista dalla norma, di destinare l’importo dovuto a riserve non distribuibili per rafforzare il patrimonio netto. Le due big del settore creditizio di Piazza Affari sembrano dunque indicare la rotta, lasciando aperto il dibattito su una delle misure più controverse degli ultimi tempi del governo Meloni.

Tassa su extraprofitti, Intesa destina a riserva circa €2 miliardi

Intesa Sanpaolo ha reso noto che l’imposta straordinaria calcolata sull’incremento del margine di interesse ammonta a circa 828 milioni di euro per il Gruppo e a circa 797 milioni di euro per la Capogruppo. Il Cda dell’istituto ha deliberato che proporrà all’Assemblea di destinare a riserva non distribuibile un importo pari a circa 1,991 miliardi, corrispondente a 2,5 volte l’ammontare dell’imposta di circa 797 milioni, in luogo del versamento di tale imposta, avvalendosi dell’opzione prevista dalla legge.

La Capogruppo darà indicazione alle banche controllate interessate dal provvedimento (Fideuram, Intesa Sanpaolo Private Banking e Isybank) di adottare un orientamento analogo. Questo implica una destinazione a riserva non distribuibile per il Gruppo Intesa Sanpaolo pari a circa 2,069 miliardi, corrispondente a 2,5 volte l’ammontare dell’imposta di circa 828 milioni.

Il gruppo ha ribadito l’impegno a “supportare iniziative per far fronte ai bisogni sociali, contrastare le disuguaglianze e favorire l’inclusione finanziaria, sociale, educativa e culturale, in coerenza con la strategia di significativa creazione di valore per tutti gli stakeholder”. Per queste finalità sono previsti costi complessivamente pari a 1,5 miliardi di euro nel quinquennio 2023-2027, già inclusi pro-quota nelle prospettive di utile netto per il 2023-2025. Di questi, un miliardo riguarda gli importi destinati alle predette iniziative, identificate volta per volta, e 500 milioni i costi di struttura delle circa 1.000 persone dedicate a supportare le iniziative.

Anche Unicredit sceglie di rafforzare il patrimonio netto

Nei giorni scorsi Unicredit, in occasione della pubblicazione della trimestrale, ha annunciato che accantonerà 1,1 miliardi di euro per contribuire all’imposta straordinaria sulle banche del 2024, destinandoli a riserve proprie non distribuibili.

“Il supporto del Gruppo alle famiglie e alle comunità durante la crisi del costo della vita rimane un imperativo”, spiega la nota del Gruppo, “ed è dimostrato attraverso iniziative tangibili come l’erogazione di una seconda tranche di ‘UniCredit per l’Italia’, che ha indirizzato €10 miliardi verso famiglie e imprese, e la riduzione delle commissioni sui conti correnti in Italia.”

Il Ceo Orcel ha spiegato che “la tassa consentiva due opzioni: pagare, oppure rafforzare le riserve e non pagare la tassa a meno che queste non vengano distribuite in un secondo tempo. Noi abbiamo scelto la seconda strada”. L’Ad la definisce “una scelta razionale, completamente coerente con quello che abbiamo fatto trimestre dopo trimestre, anno dopo anno, distribuendo generosamente utili ma anche continuando a rafforzare il patrimonio”.

L’iter della controversa tassa sugli extraprofitti

La tassa straordinaria, calcolata sull’incremento del margine di interesse, è stata introdotta ad agosto dal Decreto Decreto Omnibus (Decreto Legge n. 104), convertito con modificazioni dalla Legge 9 ottobre 2023 n. 136.

Il provvedimento ha introdotto un’imposta per l’esercizio 2023 sugli extraprofitti rivenienti dal margine di interesse netto (“NII”) iscritto dalle banche. In sostanza, un modo secondo il governo per recuperare parte degli introiti aggiuntivi che gli istituti di credito hanno potuto ricavare grazie agli aumenti degli interessi applicati ai prestiti, in scia all’incremento dei tassi da parte della Bce, non bilanciato da una crescita proporzionale degli interessi corrisposti ai depositanti. Gli introiti sarebbero dovuti servire per supportare la richiesta di mutui e il taglio delle tasse nei confronti dei cittadini, oltre ai prestiti alle Pmi.

Fin da subito l’imposta ha suscitato un coro di critiche da più fronti. Innanzitutto, dal settore bancario, che ha tendenzialmente percepito la tassa come un attacco mirato nei propri confronti da parte dell’esecutivo, anche per via di appellativi come “profitti ingiusti”. Ma anche dalle autorità europee sono giunte opinioni contrarie al provvedimento, bocciato in primis proprio dalla Bce. A seguito dell’annuncio, le banche quotate hanno registrato marcati ribassi in borsa, in previsione di eventuali impatti sulla redditività.

Secondo la prima versione della norma, gli istituti avrebbero dovuto versare il 40% della differenza del margine di interesse del 2023 rispetto a quello del 2021 e l’importo dell’imposta non avrebbe potuto eccedere lo 0,1% delle attività della banca.

Il testo finale dell’imposta sugli extraprofitti

Il 9 ottobre è stato finalizzato il processo di conversione della legge, con una serie di modifiche che hanno significativamente rivisto l’idea iniziale della tassa sugli extraprofitti.

Il testo finale prevede una nuova base imponibile, pari all’ammontare del margine di interesse dell’esercizio 2023 che eccede per almeno il 10% il medesimo margine dell’esercizio 2021.

Il tetto massimo è fissato allo 0,26% “dell’importo complessivo dell’esposizione al rischio – Risk Weighted Assets del 2022 – su base individuale”, anziché sul totale dell’attivo, il che consente di escludere dalla tassazione i titoli di Stato. Invariata invece l’aliquota, pari al 40%.

Infine, è stata introdotta la possibilità di evitare il pagamento della tassa, a patto di destinare a una riserva di patrimonio netto non distribuibile, per un importo pari a 2,5 volte l’imposta. Tale somma andrà a contribuire al CET1 della banca e non potrà dunque essere usata per distribuire dividendi, mentre sarà utilizzabile per l’assorbimento di eventuali perdite. Laddove l’istituto dovesse successivamente distribuire tale riserva, alla banca verrà richiesto di pagare la tassa inizialmente dovuta, maggiorata degli interessi.

Introiti decisamente inferiori dalla tassa su extraprofitti

Come dimostrano le scelte di Intesa e Unicredit, l’opzione di destinare l’importo dovuto a riserva sembra essere la preferita dalle banche. L’effettivo beneficio fiscale per le casse dello Stato dalla tassa sugli extraprofitti sarà dunque, con ogni probabilità, significativamente inferiore rispetto alle stime iniziale dell’esecutivo.

Secondo il Centro studi di Unimpresa, “le attuali previsioni di gettito, pari a 3 miliardi e 248 milioni di euro, ovvero la somma massima che lo Stato potrebbe teoricamente incassare dopo le modifiche alla imposta straordinaria introdotte con l’emendamento del governo al decreto “asset” (atto senato 854), sono solo teoriche.”

Tale importo, infatti, “considera, come limite di versamento, lo 0,26% dell’esposizione al rischio su base individuale: si tratta degli attivi ponderati al rischio ovvero Rwa (risk weighted asset). Per quantificare questa voce, la relazione tecnica all’emendamento fa riferimento a una stima calcolata prendendo in considerazione il capitale primario di classe 1 (Cet1) e il relativo coefficiente. Il governo stima che l’attivo ponderato sia circa il 38% dell’attivo complessivo ovvero un importo pari a 1.249 miliardi e lo 0,26% equivale a 3 miliardi e 248 milioni.”

In definitiva, “l’introduzione dell’opzione per le banche – la possibilità di versare una somma pari a 2,5 volte la tassa al rafforzamento patrimoniale – rende pari a zero il gettito qualora tutti gli istituti di credito preferissero, come è probabile, evitare il pagamento della nuova tassa.”