Economia

Tassa protezionista di Trump “creerebbe distorsioni elevate”

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Fra le promesse elettorali più discusse fra quelle avanzate da Donald Trump c’è sicuramente la border adjustment tax, una tassa doganale che, nelle intenzioni del suo principale promotore, dovrebbe punire le aziende che delocalizzano parte della produzione all’estero per poi vendere negli Usa.

“Se vai in un altro Paese e decidi che chiuderai e ti sbarazzerai di 2mila o 5mila persone… imporremo una border tax molto grossa sul prodotto quando entra”, aveva dichiarato Trump lo scorso gennaio.

Insomma, dopo alcune esitazioni (nelle quali aveva bollato la tassa come “troppo complicata”) pare che il presidente americano, che non ha mai negato di voler attuare politico di stampo protezionista, voglia agire attraverso questa forma di disincentivo fiscale per promuovere, ancora una volta, l’agenda “America First”. Non sono pochi, però, gli economisti che riterrebbero la mossa economicamente controproducente.

Se ne è parlato nel corso di una conferenza del Peterson Institute for International Economics, dal quale sono emerse una serie di conseguenze negative che avrebbe l’imposta, in particolare per le imprese americane dalle cui produzioni fuori dal suolo Usa traggono un sostegno fondamentale per la propria redditività.

Secondo Adam Posen, presidente del Peterson Institute ed ex policymaker presso la Banca d’Inghilterra, perseguire la politica del ritorno al lavoro in America con questo sistema avrebbe molti più svantaggi che vantaggi.

“Da una prospettiva macro, il gettito che si otterrebbe” con questa tassa “sarebbe molto basso, mentre l’ammontare di distorsione che si andrebbero a creare molto alto”, ha affermato Posen a Business Insider, “la quantità di guai che si creerebbero per l’economia degli Stati Uniti e del mondo sarebbe molto grande, e gli effetti distributivi, non triviali”. Anzi, “sarebbero molto dolorosi”.

Procedere con questa tassa doganale avrebbe effetti negativi sugli investimenti americani diretti verso partner commerciali importanti come l’Australia, ma anche Messico e Cina, i quali hanno già mostrato più di una perplessità su questo disegno di imposta protezionista che rischia peraltro di isolare gli Stati Uniti.