Le pressioni strutturali si intensificheranno su molti fronti. L’invecchiamento dell’Occidente ha appena cominciato a farsi sentire. Nella seconda metà del decennio l’onda grigia dei figli del Baby Boom del dopoguerra diventerà ancora più potente e premerà su tutti i sistemi previdenziali e sanitari più di oggi. I conti pubblici resteranno sotto controllo solo con uno sgradevole mix di tagli allo stato sociale, pressione fiscale in costante aumento e monetizzazione del debito a perdita d’occhio.
Chi investe avrà sempre più a che fare con una tassazione crescente del patrimonio, del reddito da capitale e delle transazioni finanziarie. La fiscalità diverrà sempre più progressiva. La repressione finanziaria si intensificherà, soprattutto se, a un certo punto, dovesse ripartire l’inflazione. In America qualcuno ha iniziato a proporre di tassare pesantemente l’oro. L’India, che importa molto oro e argento e ha problemi strutturali di bilancia commerciale, sta pensando all’introduzione di restrizioni.
I tassi d’interesse verranno mantenuti rigorosamente sotto l’inflazione. Le banche centrali continueranno ad accumulare titoli pubblici. Per qualche tempo manterranno la finzione che questi acquisti siano temporanei. L’exit strategy, che due anni fa veniva presentata come imminente, oggi appare lontana e fra qualche anno scivolerà nel mito.
L’Inghilterra, prendendo atto pragmaticamente del fatto che il Quantitative easing è una partita di giro tra la tasca destra e la tasca sinistra del Tesoro e della banca centrale, ha già iniziato a cancellare gli interessi che passano da una parte all’altra e prepara il terreno per il giorno in cui il debito detenuto dalla Bank of England verrà cancellato con un tratto di penna.
In Europa il debito pubblico continuerà a crescere. Scenderà però il costo degli interessi, perché la Bce interverrà ogni volta che sarà necessario. Come è avvenuto in Giappone e in America, i compratori di titoli di stato si troveranno in mano la carta di un emittente sempre più indebitato che paga un interesse sempre più piccolo. L’economia europea a un certo punto si stabilizzerà, ma la disoccupazione e le sofferenze bancarie, due indicatori ritardati di ciclo, continueranno a crescere.
Abbiamo ricordato questi punti per due motivi. Il primo è che si respira un’aria di incredibile ottimismo. In America l’idea è che, una volta superato questo fastidioso scoglio del fiscal cliff, la strada è sgombra per un’uscita definitiva dalle secche del dopo 2008 e un ritorno graduale ai tempi d’oro. Il secondo motivo è che gli investitori, per tutto questo decennio e per il prossimo, si troveranno premuti dalla fiscalità, dalla repressione finanziaria e forse, a un certo punto, dall’inflazione. Scegliere una strada o un’altra porterà, anno dopo anno, a risultati molto diversi.
Se il quadro strutturale, dunque, è pesante, il 2013 e (probabilmente) anche il 2014 saranno anni relativamente buoni. Poiché siamo disabituati agli scenari positivi, i prossimi due anni ci sembreranno ancora più belli di quello che saranno in realtà.
Questa fase di temporanea remissione della crisi e di apparente guarigione sarà dovuta all’intensificazione delle politiche monetarie espansive e al fatto che l’inflazione non costituirà un problema.
L’inflazione non viene dal cielo, ma ha storicamente due strade d’ingresso. La prima è l’inflazione salariale, che certamente non vedremo in Europa e nemmeno in America, finché la disoccupazione non sarà scesa sotto il 6-6.5 per cento. La seconda è costituita dalle materie prime, in particolare dalle fonti di energia.
Il tema della shale revolution è ormai ben noto e forse è perfino abusato. Anche facendo la tara alle promesse di abbondanza che circolano e ipotizzando che il boom del gas sia più breve e contenuto di quello che ci viene raccontato, resta il fatto che i benefici in termini di prezzo saranno grandi e crescenti.
Oggi il petrolio Brent costa ancora 110 dollari. Il greggio americano ne costa però solo 90 e quello canadese addirittura 55. Lo stesso per il gas, che costa 3 dollari negli Stati Uniti e 15 nel resto del mondo. L’arbitraggio non è semplice, se pensiamo che negli stessi Stati Uniti esiste una notevole dispersione di prezzi. Chi ha il petrolio non ha le raffinerie, chi ha le raffinerie non ha i gasdotti o gli oleodotti e così via. Ci vorranno molti anni ed enormi investimenti in infrastrutture, ferrovie, navi, raffinerie, porti, riconversioni di centrali elettriche e parco automobilistico, ma alla fine l’arbitraggio riuscirà e il costo medio globale dell’energia scenderà progressivamente. Gas e greggio, a loro volta, sono sempre più correlati (attraverso l’etanolo prodotto con il mais) ai prezzi delle derrate agricole. Se scenderanno gli uni scenderanno anche gli altri.
Un altro elemento favorevole sarà la ripresa dell’edilizia negli Stati Uniti. Si favoleggia molto su questo ed è possibile che alcune proiezioni siano esagerate. Per i prossimi due anni, tuttavia, ci sono sempre meno dubbi su un recupero generalizzato del settore.
Quanto all’Europa, la benevolenza tedesca verso i paesi in crisi e la disponibilità della Germania e della Bce alla monetizzazione del loro debito non vanno date per definitive, ma fino alle elezioni del prossimo ottobre i messaggi che arriveranno da Berlino saranno tutti rassicuranti.
Chi investe dovrà cercare di approfittare in tutti i modi di questa finestra di opportunità. Il cash andrà limitato il più possibile. Il debito di qualità alta (Bund, Canada, Australia) tornerà forse interessante nella seconda metà del decennio, ma nel 2013 sarà un peso morto nei portafogli. Al contrario, il debito della periferia europea vedrà spread sempre più stretti. L’obiettivo di uno spread a 200 non è irrealistico. Per massimizzare il ritorno si dovrà andare su Btp e Bonos di lunghissima durata. Anche il debito bancario di bassa qualità ha ancora strada da percorrere.
L’azionario, fiscal cliff permettendo, continuerà a salire almeno fino a primavera. L’Europa andrà meglio di tutti. Verrà vista (fin troppo) come un turnaround, è sottovalutata, avrà la valuta più forte. L’economia non importa, è il posizionamento che farà tutto.
Gli emergenti usciranno lentamente dalla fase opaca che hanno attraversato. Le loro valute si riprenderanno moderatamente e lo stesso faranno le loro borse. Niente di trionfale, in ogni caso.
L’America vedrà grandi rotazioni azionarie. L’astro nascente è la chimica, grande beneficiaria dell’energia abbondante e a basso costo. Interessante l’edilizia, dopo la correzione di queste settimane, e tutto ciò che ruota intorno alla casa. Buone, nella tecnologia, soprattutto le aree che non soffrono della concorrenza. Buoni, nel petrolio e nel gas, solo i titoli di società che operano nei nuovi El Dorado di Bakken, Marcellus ed Eagle Ford.
Abbastanza buono il settore auto. Buone le banche esposte all’edilizia, se riusciranno a non farsi dissanguare dalle cause civili e dalle multe continue dei regolatori.
Non esagerare con il corto yen, lungo Nikkei. Le ricette del partito liberaldemocratico tornato al potere sono quelle di sempre. Hanno funzionato poco in passato e difficilmente faranno miracoli questa volta.
La storia del Giappone dal 1989 a oggi è in fondo l’obiezione più inquietante all’idea di uscire dall’obbligazionario ed entrare sull’azionario. Come il Giappone, tutto l’Occidente invecchia, si indebita, monetizza e cresce poco. Come non manca mai di ricordare David Rosenberg, i bond decennali giapponesi, negli anni, hanno reso molto più della borsa. C’è però una differenza decisiva. La vitalità e la profittabilità delle imprese americane (e, in qualche misura, anche europee) è ben maggiore rispetto a quelle giapponesi. Certo, gli utili (e ancora di più i margini) hanno probabilmente finito di salire, ma i multipli sono ancora espandibili, mentre le cedole dei bond non lo sono.
Buone feste a tutti.
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