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Terroristi ISIS “nascono” nelle nostre prigioni

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Adel Kermiche, il 19enne francese che la scorsa settimana ha partecipato all’attacco nella chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray in Normandia dove è stato ucciso Padre Jacques Hamel, era stato rilasciato poco tempo fa da un carcere di massima sicurezza a sud di Parigi dove, come scrive lui stesso su Telegram, aveva conosciuto la sua guida spirituale, “lo sceicco” che gli aveva dato alcune idee.

Salah Abdeslam, l’unico terrorista sopravvissuto agli attentati di Parigi del 13 novembre scorso appena entrato nello stesso carcere è stato accolto da alcuni detenuti come un messia, a detta di una guardia carceraria al Wall Street Journal. Sempre in carcere Abdeslam nel 2010, arrestato per tentato furto di un auto, avrebbe conosciuto Abdelhamid Abaaoud, considerato la mente degli attentati di Parigi. Tutti casi che mettono in luce una situazione allarmante: le carceri sono diventate il covo preferito dall’Isis per fare proselitismo, specie in Francia e in Belgio. Un’agenzia del governo di Parigi l’anno scorso ha verificato la situazione delle prigioni d’Oltralpe e la fotografia che è emersa è preoccupante.

Secondo il rapporto nelle carceri i radicalisti islamisti hanno cominciato a muoversi come una specie di “aristocrazia”: dettando le regole ad altri detenuti, vietandogli di fare la doccia nudi, ascoltare musica o vedere alla tv partite di tennis femminile. Addirittura hanno imposto alle donne in visita al carcere di indossare lo hijab.

Così il governo francese e quello belga stanno valutando le misure da prendere, in particolare se sia necessario separare i detenuti accusati di terrorismo da tutti gli altri, onde evitare casi di radicalizzazione. Le opzioni sul tavolo sono due: da una parte tenere in isolamento i detenuti più pericolosi  – ma le polemiche qui sono dietro l’angolo – oppure radunare i radicali islamisti in spazi creati ad hoc.

Proprio in Belgio il governo, secondo quanto scrive il Wall Street Journal, sta sperimentando un programma di de-radicalizzazione in due prigioni risistemate per l’occasione in cui sono stati creati settori destinati ai detenuti radicalizzati, sorpresi durante l’attività di reclutamento di altri detenuti. I detenuti in questione sono sottoposti a incontri periodici con imam moderati che spiegano loro l’esistenza di un Islam diverso dal loro pensiero. Un programma sperimentale quello della de-radicalizzazione che è partito anche in quattro carceri francesi. Ma il problema come hanno sottolineato in molti è che mettendo insieme terroristi che non si conoscono tra loro e che appartengono a gruppi diversi può avere un effetto devastante, ossia li si aiuta a creare tra di loro legami solidi e pericolosi.

E in Italia com’è la situazione? A darne una lettura rapida è il ministro della Giustizia Orlando che parlando dinanzi al Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione dell’Accordo di Schengen ha snocciolato numeri. Nel dettaglio sono 345 i detenuti interessati dal fenomeno della radicalizzazione in carcere, di cui 153 sono classificati come a forte rischio radicalizzazione, 99 hanno manifestato approvazione per gli attentati a Parigi e Bruxelles. Carcerati musulmani in Italia sono 10.500, 7500 professano la loro fede.

Orlando afferma che la situazione del rischio di radicalizzazione jihadista in carcere “in Italia non è così allarmante come in altri paesi europei, ma occorre vigilare e non sottovalutare nulla”. Inoltre il Guardasigilli precisa che su tale fenomeno è in atto uno studio approfondito già dal 2004.

“Non possiamo permetterci di sottovalutare nulla. In carcere è possibile una radicalizzazione rapida poiché tra i detenuti vi sono e sulle quali può fare facile presa una propaganda che trasforma il radicalismo in senso di vendetta”.

Il Ministro poi rimarca la necessità di definire una strategia sui luoghi di culto “perché c’è un interesse del nostro Paese a una piena emersione del fenomeno religioso per un maggiore controllo delle dinamiche di radicalizzazione”.

“Lo sviluppo di una rete clandestina della pratica del culto è un problema per la sicurezza del nostro Paese. Non abbiamo elementi per dire che c’è un nesso causa-effetto tra la pratica religiosa e la radicalizzazione, ma abbiamo visto che in pochissimo tempo il fenomeno si è manifestato e non esattamente in un percorso apparentemente legato alla pratica del culto. Ma possiamo pensare che il culto possa avere un ruolo. Di qui l’interesse a una piena emersione per valutare la fenomenologia in corso”.