Economia

Tetto al debito Usa: i precedenti

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Si fa sempre più delicata la questione legata al tetto del debito statunitense. Secondo quanto indicato dal Segretario al Tesoro Usa, Janet Yellen, il governo rischia di rimanere a corto di liquidità all’inizio di giugno e i primi effetti dello stallo cominciano già a manifestarsi, sotto forma di maggiori costi per i prestiti in scadenza a giugno.

Oggi il presidente americano Joe Biden e il numero uno della Camera statunitense, Kevin McCarthy, si incontreranno per cercare di dirimere la controversia sull’innalzamento del limite, attualmente fissato a 31,4 trilioni di dollari.

Nonostante le parti sembrino ancora distanti, la sensazione comune è che possano trovare un accordo dell’ultimo minuto, scongiurando un default che rischierebbe di provocare gravi ricadute per l’economia globale e i mercati finanziari. Un esito che confermerebbe quanto accaduto più volte in passato.

L’innalzamento del tetto del debito è una prassi comune

Il tetto del debito rappresenta il limite posto dal Congresso degli Stati Uniti all’ammontare di prestiti che il governo americano può accumulare. È stato introdotto nel 1917, con il Second Liberty Bond Act.

Da allora il tetto del debito è stato aumentato o sospeso innumerevoli volte, quasi 80 dal 1960 ad oggi, raggiungendo il limite attuale di 31,4 trilioni di dollari (circa il 120% del Pil americano).

Diciotto sono stati gli incrementi sotto la presidenza Reagan, otto con Blii Clinton e sette con George W. Bush. In seguito, il Congresso ha alzato il tetto 14 volte dal 2001 al 2016, di cui 11 volte (per un aumento totale di circa 6,5 trilioni di dollari) durante gli otto anni di presidenza Obama.

Lo shutdown del 1995 con Bill Clinton

Nel 1995 la richiesta di innalzamento del tetto al debito è scaturita dal dibattito fra il presidente democratico Bill Clinton e il Congresso repubblicano in merito ai finanziamenti per l’istruzione, l’ambiente e la sanità pubblica nel bilancio federale del 1996.

La disputa ha portato alla mancata approvazione del bilancio federale e allo ‘shutdown’, ovvero alla chiusura del governo federale degli Stati Uniti tra la fine del 1995 e l’inizio del 1996, risolta con l’innalzamento del tetto.

Il caso del 2011 sotto la presidenza Obama

La situazione attuale ha molti tratti in comune con quella del 2011, quando il presidente democratico Barack Obama ingaggiò una lunga battaglia politica con il Congresso a maggioranza repubblicana.

In tale occasione, il GOP strappò un accordo che comportò un drastico taglio della spesa pubblica e la cancellazione di nuove tasse per i più abbienti, ottenendo quella che molti considerano tuttora una netta vittoria politica per i Repubblicani.

L’intesa fu trovata a soli due giorni dalla fatidica “data X” in cui gli Usa avrebbero esaurito la capacità di onorare gli impegni. Nel frattempo, però, gli uffici dell’amministrazione federale furono momentaneamente chiusi a causa dell’impossibilità del governo di pagare stipendi e servizi, S&P declassò il debito statunitense da AAA ad AA+ e il mercato azionario subì una brusca correzione.

Il nuovo aumento del 2013

Dopo l’incremento del tetto del debito a 16,4 trilioni nel 2011, gli Stati Uniti hanno nuovamente raggiunto il limite a fine 2012 e il Tesoro ha iniziato a adottare misure straordinarie che si sono protratte per diversi mesi.

I Repubblicani al Congresso si sono opposti all’aumento del tetto del debito senza ulteriori tagli alla spesa, rifiutandosi di alzare il limite a meno che il presidente Obama non avesse ridotto i finanziamenti per l’Affordable Care Act (Obamacare), il suo risultato legislativo più caratteristico.

La crisi si è risolta con l’approvazione del Continuing Appropriations Act, che ha previsto per il 2014 gli stanziamenti necessari a finanziare le attività del governo federale e ha esteso il limite di indebitamento, schivando il default.

I possibili rischi dello stallo politico sul tetto del debito

In ogni caso, si tratta di uno scontro prettamente politico che rischia di provocare ripercussioni economico-finanziarie, soprattutto in prossimità della “data X”, quando la volatilità si incrementa inevitabilmente. I repubblicani chiedono anche in questo caso forti tagli della spesa pubblica, mentre i democratici accusano il GOP di irresponsabilità e non sembrano intenzionati a cedere.

La sensazione è che si possa pervenire ad un accordo, ma nono sono da escludere misure straordinarie per evitare il default e guadagnare tempo fino ai primi di giugno. In ogni caso, la battaglia politica rischia di minare la credibilità di Washington e di avere qualche ripercussione significativa, in un contesto già caratterizzato dall’incertezza legata all’elevata inflazione e ai tassi elevati.

“Anche ipotizzando, come tutti speriamo, che si trovi un accordo al più presto, credo che il mercato non stia guardando agli effetti postumi”, spiega Alberto Tocchio, Head of European Equity and Thematics di Kairos Partners SGR. “Ovvero, il Tesoro americano dovrà emettere altri bond non appena il limite del debito verrà alzato, portando ad un ulteriore drenaggio di liquidità sul mercato e con un effetto di ulteriore fuga dalle riserve bancarie. La situazione generale di liquidità è pertanto quella che ci preoccupa di più.”