L’inflazione ha un impatto diretto e particolarmente pesante anche sul TFR. Le piccole imprese si trovano ad affrontare costi aggiuntivi pari a 1.500 euro a dipendente: stiamo parlando, in estrema sintesi, di una extracosto per le realtà con meno di 50 dipendenti, che potrebbe aggirarsi, in via prudenziale, ad almeno 6 miliardi di euro.
Ad effettuare i calcoli ci ha pensato l’Ufficio Studi della Cgia di Mestre, che ha sottolineato come i dipendenti delle piccole imprese – quelle con meno di 50 dipendenti – hanno la possibilità di trasferire il proprio TFR in un fondo di previdenza complementare o di lasciarlo in azienda. Benché non ci sia un riscontro ufficiale, la maggior parte dei lavoratori che è impiegato in queste realtà imprenditoriali ha optato per la seconda possibilità.
Cosa succede al TFR ogni anno
L’ammontare del TFR, che è stato accantonato, ogni anno deve essere rivalutato per legge dell’1,5% a cui si deve aggiungere il 75% della variazione dell’inflazione conseguita a dicembre, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
La Cgia di Mestre ha provveduto a fare due conti sul costo di gestione dei TFR dei dipendenti, prendendo in considerazione quanto è stato accantonato per ciascun lavoratore. Il costo della rivalutazione del TFR, ovviamente, è condizionato dagli anni in cui la singola persona ha lavorato per l’azienda. Ipotizzando che un dipendente sia in forza nella stessa ditta da almeno 5 anni, la rivalutazione del suo TFR, nel corso del 2023, ha un costo pari a 593 euro. Nel caso in cui, invece, il lavoratore ha un’anzianità di dieci anni, invece, l’aggravio è di 1.375 euro, cifra che aumenta a 2.003 euro se l’anzianità è pari a 15 anni e 2.594 euro se gli anni sono venti.
Extracosto: le stime
Deve essere segnalato, comunque, che per quanto riguarda le piccole imprese generalmente i lavoratori dipendenti hanno un’anzianità di servizio più contenuta rispetto a quelli che lavorano nelle grandi imprese. In queste realtà, dato che ci sono delle retribuzioni più alte generalmente il turn over dei dipendenti è più basso e le carriere sono più lunghe.
A questo si aggiunge il fatto che il numero dei lavoratori dipendenti delle piccole aziende, che hanno deciso di trasferire il proprio TFR in un fondo pensione è molto basso. La maggior parte dei 6,5 milioni di dipendenti, che sono occupati in aziende con meno di 50 dipendenti, lo lasciano in azienda.
La Cgia di Mestre ha ipotizzato che il 66% dei lavoratori abbia lasciato il TFR in azienda (quindi 4,3 milioni di dipendenti) e che abbiano un’anzianità di servizio intorno ai dieci anni:
la variazione della rivalutazione del TFR rispetto alla media riconosciuta al dipendente nel periodo che va dalla sua assunzione al 2020, è stata positiva e prudenzialmente pari ad almeno 6 miliardi. Insomma, per il milione e mezzo di imprese con meno di 50 addetti presenti in Italia, la fiammata inflazionistica avrebbe comportato, in materia di TFR, una stangata da brividi che sommato agli effetti riconducibili all’aumento imprudente dei tassi di interesse deciso dalla BCE hanno spinto in difficoltà la gran parte del sistema produttivo del nostro Paese.
Azienda Vs Fondi pensione
Ricordiamo che il TFR costituisce a tutti gli effetti una forma di salario differito. Nel momento in cui un dipendente dovesse decidere di lasciarlo in azienda, le conseguenze finanziarie possono risultare negative per l’impresa, così come abbiamo visto che è accaduto quest’anno.
In un certo senso, però, risulta auspicabile che il lavoratore effettui proprio questa scelta: il TFR costituisce uno strumento per riuscire a fronteggiare la mancanza di liquidità. L’imprenditore, in un certo senso, ha delle somme in prestito dal proprio dipendente che gli deve corrispondere nel momento in cui le chiede o quando si conclude il rapporto di lavoro.
TFR: aziende del Sud più penalizzate
Ad essere più penalizzate sono le aziende del Sud. La Cgia di Mestre sottolinea che non avendo a disposizione i dati riferiti al numero dei lavoratori che hanno deciso di trasferire il proprio TFR nei fondi pensione, è possibile ipotizzare che le zone più colpite sono quelle nelle quali il peso delle piccole aziende, in termini di addetti, risulti essere maggiore. La situazione più critica dovrebbe, quindi, interessare il Mezzogiorno, in particolar modo Vibo Valentia, dove il 91% delle aziende ha meno di 50 addetti. Seguono:
- Trapani: 89,3%;
- Agrigento: 88,7%;
- Nuoro: 88,3%;
- Campobasso: 86,1%;
- Prato: 85,7%;
- Grosseto: 85,6%;
- Cosenza: 85,1%;
- Imperia: 84,7%;
- Barletta-Andria-Trani: 84,3%.
Come funziona il TFR e cosa cambia per i dipendenti
Nel momento in cui si conclude un rapporto di lavoro il dipendente ha diritto di ricevere il proprio TFR, ossia il trattamento di fine rapporto. Questo emolumento consiste in una somma accantonata annualmente, che è parametrata sulla retribuzione lorda percepita.
Il TFR, in estrema sintesi, è pari al 6,91% della retribuzione lorda annua. Il lavoratore ha la possibilità di lasciarlo a disposizione del proprio datore di lavoro o può decidere di trasferirlo in un fondo di previdenza complementare. Quando viene lasciato in azienda, il TFR può essere accantonato dalle imprese in un apposito Fondo dalle imprese con meno di 50 dipendenti e viene versato nel Fondo di Tesoreria Inps dalle imprese con oltre 50 dipendenti. Quando il TFR non viene destinato alla previdenza complementare – sia quando rimane direttamente in azienda sia quando confluisce nei fondi Inps – viene rivalutato direttamente dall’impresa ogni anno in modo da preservarne il valore all’inflazione.
Come spiega la Cgia di Mestre per il 2022
il tasso di rivalutazione è stato particolarmente alto, pari a 9,974576%, risultando dalla somma del tasso fisso 1,5% e dal 75% della variazione dell’inflazione pari all’11%. Di conseguenza, nel 2022 le imprese con meno di 50 dipendenti hanno visto aumentare in maniera considerevole il peso della rivalutazione del TFR che i dipendenti hanno scelto di non destinare ai fondi pensione.