Se questo doveva essere in borsa l’anno del back to basic (ritorno ai fondamentali) la dinamica della filiera Colaninno sta dimostrando come siano ancora altre le motivazioni che muovono la logica degli investitori.
Solo che le recenti flessioni che continuano a interessare i titoli della telefonia (anche a livello europeo) dimostrano la poca fondatezza di criteri di selezione che esulino dai numeri. Questo è particolarmente vero per Telecom Italia e Tim in una fase di mercati in cui le quotazioni dei titoli sono ostaggio della volatilità a causa dei riflettori puntati da Consob e procura di Torino sul management, e con il continuo susseguirsi di voci speculative su un possibile ingresso di nuovi soci. Così Tim scambia sotto i €6 e Telecom ondeggia intorno alla soglia dei €10, con brevi fiammate al rialzo.
Eppure, nonostante queste ulteriori flessioni (-15% Tim e –8.5% Telecom nel mese di giugno dopo rispettivamente –32.5% e –14.7% da inizio anno) residuano non pochi dubbi sul fatto che questo sia già il momento opportuno per prendere posizione su questi titoli.
La prima circostanza citata provoca infatti come conseguenza negativa il fatto di non poter ritenere sostenibile qualunque piano strategico-industriale presentato al mercato in una fase di discredito di chi esercita il controllo sul gruppo; la seconda rischia di tradursi nella solita beffa del mercato. Un analisi dei grafici delle società in questione dimostra come prezzi e volumi si siano spesso mossi in relazione a voci troppo spesso orchestrate ad arte (specie alla luce del niente di fatto che ne è sempre seguito) sul possibile ingresso nel controllo della capogruppo di nuovi soci. Questa circostanza allo stato attuale presenta un ulteriore elemento negativo per il piccolo risparmiatore, in particolare posizionato sulle società operative.
Infatti sembra che l’attuale vertice di controllo della Bell -la holding che controlla Olivetti– abbia all’improvviso deciso di rinsaldare la propria partecipazione (dal 19.7% al 23%) non solo acquistando i titoli da banche (e quindi non facendo passare i pacchetti sul mercato), ma anche al fine di cederle in blocco al futuro acquirente (quindi nuovamente fuori mercato): il passaggio del controllo avverrebbe così senza Opa e quindi senza ricaduta positiva per i piccoli risparmiatori.
Vale del resto per le società operative la stessa considerazione fatta per la capogruppo: la possibilità che vi sia una regia volta al discredito e alla sostituzione dell’attuale management apre una fase di incertezza che non consente di leggere l’attuale fase di debolezza come una valida opportunità per posizionarsi sui titoli; proprio perché, come detto, in questa situazione è a rischio la stessa credibilità del business e del piano strategico di lungo periodo.
Del resto al di là dei guai giudiziari sulle società operative grava l’incognita di una situazione patrimoniale attualmente ingessata per la capogruppo, il che limita l’appeal di Telecom e Tim nonostante la loro natura difensiva proprio in relazione ai debiti stessi. D’altra parte se la situazione sul fronte patrimoniale di Olivetti riuscisse a risolversi in base ai progetti del management (riduzione dei debiti per €5 miliardi in 3 anni) nella fase contingente l’effetto settore continua a pesare.
E l’onere è particolarmente pesante per Tim. Se infatti la telefonia fissa è oggi più assimilabile a una utility, quella mobile viene vista come un sostituto più vicino alla tecnologia. Non a caso la dinamica del mobile ha risentito in modo accentuato degli allarmi utili di società come Nokia, Nortel e Philips. Questa difficoltà tecnologica ha peraltro trovato terreno fertile nei dubbi sulla telefonia di terza generazione, sulla quale crescono i dubbi sull’entità dei ritorni.
Inoltre per Telecom se a livello generale di risultati (e soprattutto di redditività) si avverte l’impatto finanziario negativo di ammortamenti sull’avviamento, di più onerose spese per interessi e svalutazioni; un segnale positivo arriva dalla capacità di tenuta che sta dimostrando, proteggendo in parte i propri risultati pur in un contesto che ha visto una contrazione delle tariffe della telefonia fissa del 20% circa. La deregulation, con la conseguente contestuale presenza in Italia di 150 operatori alternativi, ha infatti impattato il margine operativo lordo (MOL) in negativo per un 3.8%; ma tale riduzione risulta comunque inferiore a quella registrata dagli altri ex-monopolisti in un contesto simile.
In realtà la vera novità sta nel fatto che proprio Internet, la forma più moderna di comunicazione, sta aiutando a sostenere i conti della telefonia fissa, in quanto si preferisce far viaggiare le enormi masse di dati sulla fibra ottica piuttosto che sulle più lente onde radio. Proprio la modifica nel mix di componenti di traffico voce e dati nel primo trimestre segna una svolta a tutto vantaggio della redditività di Telecom: l’attuale trend al ribasso del MOL potrebbe tradursi e confermarsi nei prossimi trimestri in una crescita dell’ebitda rispetto ai ricavi. Non a caso il 56% del totale dei ricavi del gruppo arriva ancora dalla telefonia fissa, con una partecipazione al risultato operativo del 55.7%.
Sul fronte della riduzione dei debiti del gruppo legata alle operazioni speciali va poi aggiunto che, se anche le condizioni di mercato fossero le più favorevoli, il piano avrebbe comunque delle difficoltà di realizzazione, riassumibili nella posizione dura di contrasto aperta dagli azionisti di risparmio che sono concentrati intorno al fondo Liverpool. La posizione è di aperta rottura, tanto che il progetto Colaninno è giudicato non corretto, con un prezzo sbagliato e coercitivo.
Infatti il mercato non ha una valore preciso ma una banda di riferimento con una indicazione di 38%-42% di range di conversione, tra l’altro una banda superiore a quella storica di oscillazione del rapporto tra ordinarie e risparmio (25%-30%). In più se l’azionista di risparmio non partecipa alla conversione una parte delle riserve (circa €10 milioni) che sono anche sue sarebbero distribuite a solo vantaggio degli azionisti ordinari. Ecco perché si parla da più parti della distribuzione di un dividendo straordinario a solo vantaggio delle azioni ordinarie. Del reso anche se la società si difende facendo osservare che il buy back è una forma di investimento che va a beneficio di tutti gli azionisti (in caso di vendita e generazione di una plusvalenza) a differenza di una reale distribuzione di riserve che riduce permanentemente il patrimonio; resta il fatto che l’operazione è stata annunciata con un premio massimo sulla quotazione di mercato del 25%, fatto abbastanza anomalo dato che il buy back deve essere portato avanti al minor prezzo possibile. Nasce ovviamente il sospetto che la modalità di esecuzione tramite Opa (che implica sempre un premio) sia stata motivata dall’obiettivo unico di favorire Olivetti.
D’altra parte se il buy back dovesse trovare spazio di realizzazione si avrebbe una ricaduta positiva in termini di utile per azioni proprio in conseguenza della riduzione del numero di azioni stesse in circolazione. Anche il dividendo si spalmerebbe su una percentuale inferiore di titoli e quindi potrebbe quantomeno essere preservato (se non migliorato) il livello attuale di distribuzione, bilanciando in questo modo un’eventuale flessione dei capitali in distribuzione per il venir meno con il 2000 dell’obbligo di un pay out per il 90% degli utili.
Che le vicissitudini debitorie di Olivetti abbiano delle ricadute dirette negative sulle realtà operative lo dimostra lo stesso fatto che sul fronte delle alleanza e delle acquisizioni la pressione dei debiti stessi ha spinto il management a escludere nel breve operazioni speciali anche da parte di Telecom e Tim: non a caso Telecom rinuncia al proprio obiettivo più volte segnalato di acquisto del 28% della spagnola Auna da Endesa. Tim smentisce il proprio interessamento a rilevare Blu o Bt Wirelles (divisione di telefonia mobile di British Telecom), o a portare avanti accordi con Kpn. Dall’estero arriva invece una sempre più pressante minaccia per Telecom e in particolare dal Sud America, dove realtà come Telecom Argentina stanno risentendo in modo forte per le crescenti difficoltà economiche (oltre che per una concorrenza che si fa sempre più serrata). Ma del resto anche sul fronte delle partecipazioni in portafoglio l’operatività portata avanti sembra essere stata vincente: la dismissione di attività non core, in particolare di quelle che drenavano eccessive risorse, è stata la variabile chiave del processo, facilitando la focalizzazione e consentendo di risolvere il problema della gestione di realtà complesse. Ora resta da completare questa strategia facendovi rientrare anche la tv digitale e l’IT.
Ma che le realtà operative siano in gradi di esprimere una loro forza intrinseca lo dimostra l’approvazione che la stessa Tim continua a raccogliere a livello internazionale: positive le indicazioni di Mediobanca che fissa un prezzo obbiettivo per TIM a €9, Santander (9,2€), di Morgan Stanley (€9,6), Fortis Bank (€9), Bank of America e UBM (€10). Del resto pur in un contesto di rallentamento macroeconomico Tim sta facendo segnare proprio nel 2001 il massimo per quel che riguarda l’Arpu (ricavo medio per cliente); valore che potrebbe anche incrementarsi entro la fine dell’anno. E del resto le valutazioni della società (facendo riferimento all’EV/Ebitda=capitalizzazione+posizione finanziaria netta in rapporto al margine operativo lordo) la vedono allineata con Vodafone e più vantaggiosa di Telefonica Moviles e Orange, con uno sconto rispettivamente del 15% e del 39%. Ma solo investitori molto pazienti potranno essere in grado di cogliere i frutti di questa migliori potenzialità.
*Donatella Principe è responsabile della ricerca economica presso il centro studi del Gruppo
Banca Popolare di Vicenza.
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