ROMA (WSI) – Costa molto – troppo – e rende poco, troppo poco. Il sistema dei trasporti pubblici è una giungla che conta oltre 1700 società partecipate dagli enti locali, drena dai conti dello Stato 5 miliardi l’anno e lascia tutti scontenti: viaggiatori e amministratori. Per centrare questo scoraggiante risultato, oltretutto, spendiamo più di quasi tutti gli altri Paesi europei. Chiaro che la macchina va rivista.
Giusto ieri il ministro dei trasporti Maurizio Lupi ha toccato uno dei punti centrali della questione: «Le Ferrovie possono svolgere un ruolo importante nella razionalizzazione del trasporto pubblico locale, ma non possono essere utilizzate per ripianare i bilanci delle tante aziende locali in crisi». I contratti di servizio, insomma, non funzionano.
Il motivo è presto detto: secondo i numeri del commissario per la spending review Carlo Cottarelli nel resto d’Europa i biglietti pagati dai viaggiatori coprono il 50-60% della spesa sostenuta dall’azienda di trasporto per organizzare il servizio. In Italia la copertura si ferma al 22%. Il messaggio è chiaro: per colmare la distanza bisognerebbe più che raddoppiare le tariffe. Il che equivale a scatenare una rivoluzione.
Se si mettono invece a paragone gli investimenti per chilometro sostenuti dagli altri Paesi europei per la rete ferroviaria, scopriamo che i costi sostenuti dall’Italia sono più alti del 55%. Anche su questo fronte spendiamo troppo.
Le tavole di Cottarelli indicano che le strade da percorrere per rendere più efficiente il trasporto sono due: la prima è senz’altro sfoltire le poltrone e l’apparato delle partecipate locali, anche attraverso fusioni tra società diverse. Ancora Lupi: «Ci sono Comuni che hanno quattro o cinque aziende, e alla luce degli sprechi che comporta questa situazione è evidentemente necessaria una razionalizzazione con l’accorpamento di queste aziende». E qui si tratta di mettere d’accordo i campanili – arte in cui l’Italia non eccelle – e per di più di farlo nei servizi pubblici – materia sensibilissima perché intrecciata profondamente con gli interessi elettorali di chi amministra. Il classico scambio tra il mondo della politica e quello del sindacato, consenso in cambio di un serbatoio di posti di lavoro garantito, genera da sempre sprechi giganteschi.
Seconda strada: «aumentare le tariffe». La documentazione di Cottarelli lo dice esplicitamente (e lo dice addirittura due volte). Compito che sarà complicatissimo anche nella migliore delle ipotesi, quella in cui si riesca a migliorare il servizio, figurarsi se dovesse cominciare la sarabanda della razionalizzazione delle linee, del taglio dei rami secchi e via risparmiando. Tagliare e migliorare insieme (anche se questo vorrebbe Lupi) sembra davvero una chimera, eppure è chiaro che un intervento è indispensabile.
Da sindaco di Firenze, Matteo Renzi ha affrontato il problema nella sua città. E lo ha fatto cedendo (ma non privatizzando) Ataf – l’azienda dei trasporti fiorentini – a Busitalia, società controllata dalle Ferrovie e quindi, risalendo la catena, allo Stato. Nel passaggio da Palazzo Vecchio a Palazzo Chigi, insomma, il premier si ritrova di nuovo il problema in casa. I liberalisti convinti pensano che il passo successivo, la privatizzazione, sia l’unico modo per evitare casi come quello di Roma, dove il deficit del trasporto ha raggiunto 1,6 miliardi.
Sul fronte opposto chi teme che il privato stringa troppo la cinghia. E ricorda con un certo timore quanto è successo a Genova in novembre, dove l’ipotesi di privatizzare gli autobus ha portato a uno sciopero che ha paralizzato la città per una settimana. E alla fine ha bloccato tutto.
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