Il ministro dell’Economia Giovanni Tria ci ha provato in ogni modo: l’Italia non ha intenzione di uscire dall’euro, ha detto a più riprese, né di creare le condizioni perché questo possa avvenire sotto pressioni esterne, perseguendo politiche economiche audaci. Tuttavia, hanno notato gli analisti di Reuters, i titoli che per varie ragioni proteggono di più dal rischio di ridenominazione (ovvero dall’Italexit) hanno risentito meno della fase di crisi culminata a fine maggio, rispetto ai titoli omologhi che non offrono la medesima sicurezza.
L’esempio più semplice è quello dei titoli di stato italiani denominati non in euro, bensì in dollari: a maggio i Btp decennali hanno visto crescere i rendimenti di 100 punti base, mentre gli omologhi denominati in dollari sono saliti solo di 80 punti. La ragione è innanzitutto giuridica: i Btp in euro sono regolati dalla giurisdizione italiana, che può forzare una restituzione (con alcuni limiti, si veda più avanti) in una eventuale nuova moneta italiana, il cui valore sarebbe certamente inferiore all’euro. I titoli in dollari, al contrario non potrebbero essere legalmente ridenominati.
Il discorso è analogo se si passa ad analizzare due differenti tipologie di Credit default swap (Cds), i derivati che coprono dal rischio di insolvenza di un emittente: la prima tipologia di Cds, introdotta nel 2003, non prevede fra i credit event in grado di configurare i pagamento la ridenominazione della moneta, che qui non sarebbe considerata un default. Dopo la crisi del debito greco sono stati introdotti nuovi Cds, che convivono con i precedenti, i quali al contrario allargano lo spettro della loro “assicurazione” al rischio di uscita da un’unione valutaria. Lo spread fra questi due swap viene pertanto considerato come un indicatore assai specifico sulla domanda degli investitori sulla copertura da questo rischio. Ebbene, il 29 maggio questo differenziale ha raggiunto il record storico a 120 punti base.
Un ultimo segnale proviene dal diverso comportamento fra i titoli di stato “ordinari” e quelli che prevedono le Collective action clauses (Cac), divenuti obbligatorie nell’Eurozona dopo il 2014. Questi ultimi titoli richiedono che i detentori di debito votino a maggioranza eventuali cambi nella denominazione della moneta relativa ai titoli che hanno acquisito: considerata la svalutazione di una nuova lira, si ritiene che tali bond (la metà del totale circolante) siano coperti dal rischio di ridenominazione. Anche qui, i titoli di stato italiani non-Cac hanno risentito maggiormente dell’aumento dei rendimenti delle ultime settimane.
Per il momento, dunque, sembra che la strada della “rassicurazione”, per il ministro Tria, sia ancora in salita.