ROMA (WSI) – Quando decisero di spegnere le centrali nucleari correva l’anno 1987. Massimo D’Alema era appena entrato in Parlamento, Gianfranco Fini veniva eletto segretario del Movimento sociale italiano al posto di Giorgio Almirante e il Napoli di Diego Armando Maradona faceva l’accoppiata scudetto-Coppa Italia.
Da 25 anni lo smantellamento di quegli impianti è un cruccio, o un affare secondo i punti di vista, che va avanti senza sosta. Se ne sta occupando una società pubblica, la Sogin, attualmente presieduta dall’ex ambasciatore a Mosca e Londra Giancarlo Aragona.
Nata da una costola dell’Enel e ora di proprietà del Tesoro italiano, negli anni passati si è anche trovata al centro di polemiche decisamente singolari.
Memorabile l’apertura di una lussuosa sede a Mosca negli anni più intensi del feeling fra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin, cementato da un accordo formidabile: perché mentre lo smantellamento delle nostre centrali nucleari procedeva con il contagocce, avevamo preso con i russi l’impegno di smantellare i loro sommergibili atomici.
Altrettanto memorabili alcune iniziative d’immagine, fra cui la partecipazione alla Fiera del libro usato, cara all’ex senatore Marcello Dell’Utri, per la modica cifra di 1.257 mila euro più Iva. Per non parlare di alcune assunzioni di parenti e amici.
Ma è acqua passata. Apprendiamo ora dall’ultima relazione della Corte dei conti relativa all’attività della società nel 2011, che a circa un quarto di secolo dal referendum in seguito al quale i politici decisero di spegnere le quattro centrali nucleari allora attive, finalmente la Sogin «ha intensificato l’attività di smantellamento, per la prima volta aggredendo il core delle centrali».
Il tutto, ovviamente, avviene avvalendosi di ditte specialistiche. Oltre che di un congruo apparato interno. Dalla medesima relazione dei magistrati contabili si ha infatti la notizia che al 31 dicembre del 2011 i dipendenti del gruppo Sogin erano 887: settantuno in più rispetto a due anni prima.
Inevitabile anche l’aumento dei costi, giustificato con il fatto che si è deciso di riportare all’interno della società alcune fasi della progettazione del decommissioning, che evidentemente in precedenza venivano affidate all’esterno. Con più di 800 persone negli organici.
Chi paga? Naturalmente, gli utenti. Lo smantellamento delle centrali atomiche grava infatti sulle tariffe elettriche in base a un provvedimento del 2001, che stabilì per completare l’operazione un finanziamento a favore della Sogin con il prelievo sulle bollette pari a 6.500 miliardi di lire. Ovvero, 4 miliardi 236 milioni di euro attuali, da spalmare su un periodo di vent’anni: sempre che non fossero intervenute le solite difficoltà (meglio chiamarle così) poi puntualmente verificatesi.
Va precisato che quei 4 miliardi 236 milioni di oggi non sono gli unici costi sopportati dai cittadini per l’abbandono da parte dell’Italia dell’opzione atomica. Perché vanno calcolati anche gli indennizzi astronomici corrisposti all’Enel e agli appaltatori e fornitori della centrale di Montalto di Castro che nel 1987 era quasi completata.
I generosi rubinetti di quegli indennizzi si sono chiusi nel 2000, dopo che avevano già versato nelle casse della società elettrica e di imprese quali Ansaldo Finmeccanica 11 miliardi 456 milioni di euro del 2012.
Oltre il doppio della cifra (5.500 miliardi di lire, pari a 4 miliardi 706 milioni di euro di oggi) che era stata stimata congrua da una commissione di esperti all’inizio degli anni Novanta. L’uscita dal nucleare ci costerà dunque alla fine l’equivalente in valuta attuale di 15 miliardi 692 milioni di euro, l’uno per cento del Pil, somma con la quale si potrebbero costruire almeno dieci centrali. Tutto questo, sia ben chiaro, nella migliore delle ipotesi. Siamo o non siamo il Paese delle meraviglie?
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