Uber, in risposta a due class action in cui 385mila autisti americani puntavano a vedersi riconosciuto lo status di dipendenti, ha raggiunto un accordo nel quale pagherà 100 milioni di dollari. Nello specifico, ciascun autista che abbia percorso almeno 40 mila km con un passeggero a bordo, riceverà 8 mila dollari. Difficile dire se questo esborso sia molto più conveniente per Uber di quello che si sarebbe potuto avere arrivando a sentenza. “Da un lato si tratta di molti soldi, dall’altro il numero di autisti coinvolti era molto alto e non è chiaro quanto risparmierà Uber rispetto allo scenario in cui gli autisti fossero stati qualificati come subordinati” dichiara al Corriere il giuslavorista Valerio De Stefano (Università Bocconi), “di sicuro è rilevante che la transazione preveda anche che Uber cambi i propri termini di servizio”.
Infatti, la questione nasce dalla distanza che intercorre nella stringente policy di Uber, la nota app odiata dai tassisti di tutto il mondo, e lo status di lavoratore indipendente in cui sono definiti gli autisti. Ora, Uber ha accettato di ridurre quelle forme di controllo che esercitava sui lavoratori, come l’obbligo di accettare tutte le chiamate. Allo stesso tempo, però, non garantirà i costosi diritti che sono riconosciuti ai dipendenti come le ferie e le indennità di malattia.
Nonostante i passi avanti che diverranno operativi nei prossimi mesi, “i sistemi di controllo e valutazione degli autisti rimangono comunque in piedi e, tramite quei sistemi, Uber mantiene comunque un rilevante potere di monitoraggio e gestione della forza lavoro”, prosegue De Stefano.
E’ ancora presto per dire se i nuovi accordi di Uber con i lavoratori statunitensi saranno applicati anche in Italia; legalmente la società non sarebbe tenuta a farlo, precisa il docente della Bocconi, “difficile prevedere anche come saranno applicate queste nuove regole di ingaggio degli autisti e che effetto avranno sul servizio offerto ai consumatori, più esposti alla possibilità di rifiuto di una loro chiamata”.