L’ultimo report occupazionale dell’era di Barack Obama si è confermato deludente. Il market mover che deciderà la direzione dei mercati nelle prossime sessioni è arrivato, e i numeri non sono positivi come quelli previsti dal consensus. Nel complesso, la crescita moderata dell’occupazione Usa del 2016 viene confermata. Ciò che continua a spaventare, però, è la velocità con cui le pressioni inflazionistiche stanno crescendo.
A dicembre negli Stati Uniti sono stati creati 156.000 nuovi posti di lavoro, meno dei +178.000 nuovi posti di lavoro stimati dagli analisti. I dati di novembre sono stati rivisti tuttavia al rialzo, con una crescita dell’occupazione che è stata di 204.000 unità , meglio del rialzo di 178.000 unità inizialmente reso noto. I numeri di ottobre relativi ai nuovi posti di lavoro creati sono stati invece rivisti al ribasso a +135.000 da +142.000.
Nel complesso, la buona notizia è che, insieme, i numeri di novembre e ottobre sono stati superiori a quelli riportati inizialmente di 19.000 unità .
In lieve rialzo il tasso di disoccupazione, che a dicembre è salito dal 4,6% di novembre al 4,7%.
Quello appena pubblicato è stato l’ultimo report del lavoro dell’era della presidenza di Barack Obama. I miglioramenti sono sotto gli occhi di tutti se si considera che nel dicembre del 2008, dopo la vittoria di Barack Obama all’Election Day, il tasso di disoccupazione degli Stati Uniti era pari al 7,2%.
Oggi la creazione di nuovi posti di lavoro si aggira inoltre attorno +150.000 unitĂ , a fronte dei 705.000 posti di lavoro che vennero persi nel dicembre del 2008.
Il dato conferma anche che il 2016 si è concluso con una crescita dell’occupazione superiore ai due milioni di posti di lavoro, per il sesto anno consecutivo. Tuttavia, il ritmo di crescita ha rallentato il passo, visto che nell’intero 2015 erano stati creati 2,7 milioni di nuovi posti di lavoro.
Il report sul lavoro non è inoltre del tutto rassicurante, soprattutto sul fronte dell’ inflazione. Dao numeri emerge infatti che nel dicembre del 2016 i salari medi orari sono balzati di 10 centesimi, a $26, segnando un rialzo che è stato +0,4% su base mensile e di ben +2,9% su base annua, al tasso più alto dal 2009.
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Il balzo dei salari sembra dare ragione ao mercati che, subito dopo la vittoria di Donald Trump alle elezioni Usa dello scorso 8 novembre hanno scommesso su un aumento delle pressioni inflazionistiche. Il motivo? Le manovre di politica fiscale espansive promesse dallo stesso Trump durante la campagna presidenziale, dunque le aspettative di un aumento della spesa pubblica e di un taglio delle tasse, fattori che dovrebbero sostenere ulteriormente la ripresa dell’economia americana e contribuire, dunque, all’aumento dei prezzi (con conseguenti rialzi dei tassi da parte della Federal Reserve).
Gli stessi timori stanno colpendo l’Eurozona, con i dati macro che anche in questo caso mettono in evidenza l’accelerazione della dinamica dei prezzi a livelli record.
La paura dell’inflazione è tutta riflessa nel trend dei bond, e in particolare in quello dei Treasuries Usa che, subito dopo la pubblicazione del report, sono stati smobilizzati, a fronte di un rialzo dei rendimenti, a scadenza decennale, a un passo dal 2,4%.
D’altronde, gli stessi economisti intervistati da Reuters a dicembre avevano detto chiaramente che, tra i rischi che incombono sull’economia, due sono rappresentati sicuramente dall’accelerazione dei prezzi e dal balzo del dollaro: fenomeni che saranno scontati, a loro avviso, soprattutto dai mercati emergenti, alle prese con costi di rifinanziamento dei debiti denominati in dollari attesi sempre più in rialzo.