Un paese di stanchi e beoti: tra festività e ponti (20 giorni) l’Italia ha perso un punto di Pil
ROMA (WSI) – Italiani stakanovisti, forzati delle catena di montaggio e della scrivania. Nelle classifiche Ocse sul numero di giorni lavorati ogni anno, il Belpaese finisce nelle posizioni più alte, accanto a Giappone e Corea del Sud.
In alcuni anni siamo finiti al primo posto tra i Paesi più industrializzati. Ma qualcosa non torna, come hanno potuto sperimentare in questi giorni gli italiani (nella veste di clienti), in particolare nelle grandi città. Milano semideserta; uffici chiusi e produzioni ferme. Roma più attiva, ma solo per la coincidenza della santificazione dei due Papi.
Fabbriche, magazzini, negozi e uffici; tutto al rallentatore già dal 19 aprile e fino alla festa della Liberazione. Poi di nuovo vacanza, con la prospettiva di non potere usufruire di beni e servizi fino al 5 maggio. Fine del mega ponte che per molti significherà anche l’uscita dal tunnel di un’inattività forzata.
Anomalia tutta italiana quella dei ponti. All’estero si cerca di evitare la paralisi produttiva. Al massimo si cerca di ovviare con soluzioni come il Bank Holiday, festività nazionale che cade sempre di lunedì ed esclude comunque i servizi pubblici.
La storia del Paese dove si lavora troppo, insomma, sa molto di leggenda metropolitana. O meglio, di bug metodologico che si è insinuato nelle rigidità statistiche dell’Ocse. Nelle loro classifiche si stimano infatti le ferie godute e si mettono nello stesso calderone tutti i lavoratori. Dipendenti e autonomi. Perfetto per la maggior parte dei Paesi con economie forti ed evolute. Un po’ meno per l’Italia dove ancora resiste il dualismo tra lavoro dipendente e autonomo. Difficile distinguere statisticamente, ma se per i dipendenti si raggiungono spesso i due mesi all’anno, per autonomi, commercianti e liberi professionisti, la media si abbassa notevolmente.
Per le categorie che devono contabilizzare ogni giorno di vacanza come una perdita, 15 giorni all’anno sono la norma. L’anomalia di questo 2014 è che, nonostante il megaponte, nessuno ha protestato. Eppure la perdita per l’economia non può che esserci stata. Fino a due anni fa si calcolava che eliminare una settimana di ferie-festività o permessi retribuiti, farebbe guadagnare un punto percentuale di Pil al Paese, pari a circa 15 miliardi. Il mega ponte dovrebbe quindi costare il doppio.
La perdita di Pil era il cavallo di battaglia di tutti i governi che si sono cimentati con il nodo dei ponti all’italiana. Quelli di centrodestra, sicuramente. Berlusconi nel 2004, poi nel 2011 (a valere dal 2012) la manovra del ministro Giulio Tremonti puntava ad accorpare le festività civili, 25 aprile, primo maggio e due giugno, con le domeniche. Progetto che il governo Monti cercò di portare avanti, ma al quale rinunciò per le forti opposizioni. Di fatto, l’ultimo tentativo di aumentare i giorni lavorativi andato a buon fine, è stato quello del ’77, con l’abolizione di alcune feste religiose, Epifania compresa.
Non è un buon segno. Se nessuno sta provando a cancellare qualche festa comandata o rimediata, è perché l’Italia è in crisi. Le aziende, in particolare del manifatturiero, spiega un imprenditore, hanno tra le priorità quella di fare smaltire le ferie dei dipendenti entro l’anno, in modo da non doverle contabilizzare come passività.
Utilizzano i ponti per invogliare i dipendenti, anche a costo di fermare macchine e chiudere gli uffici. Se la produzione ne soffre, poco importa. In un momento in cui la domanda è così bassa, non produrre non è necessariamente un male.
Se dal manifatturiero si passa ai servizi e al turismo, poi, l’interesse è ad avere più ponti possibili. Ogni tentativo di tagliarli per fare crescere il Pil ha incontrato l’opposizione fortissima di tutte le associazioni del commercio, in particolare della ristorazione e degli alberghi. In questi tempi della crisi, gli italiani valgono più come consumatori e come vacanzieri che come lavoratori.
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