Il dibattito sulle sofferenze bancarie (o “NPL”: non performing loans) si è concentrato sui tecnicismi per risolverlo. Sono stati derubricati due temi di fondo che, se affrontati, potrebbero non solo risolvere il problema in ottica diversa da quella “liquidatoria” ma anche evitarne il riformarsi.
L’occasione per spiegare in modo semplice quali sono questi due punti è fornita dall’articolo apparso sul sole24ore del primo febbraio .
L’autore aiuta a comprendere con parole facili cosa siano le varie entità di cui si parla (bad bank, spv, ecc.) e le circostanze che le hanno generate.
“Supponiamo che in un Paese ci sia una grave crisi economica. Molte imprese falliscono e non riescono a ripagare alla scadenza i debiti che avevano contratto con le banche…”
La crisi economica viene dunque rappresentata come una sorta di evento atmosferico, le cui cause sono esterne al sistema delle aziende e provoca il fallimento delle imprese. Ma se fosse il contrario?
Mi spiego meglio: se fosse il fallimento delle imprese che provoca la crisi economica?
La domanda successiva allora è perché falliscono le imprese. La risposta è semplice: perchè nessuno è più interessato a comprare i loro prodotti e servizi. Per questo motivo, quando hanno ancora qualcuno che le paga poco e male, le aziende si indebitano, perchè non producono quei soldi che dovrebbero (perchè l’azienda, è bene ricordarlo sempre, è quella cosa che produce soldi, non li assorbe).
Dunque ecco una prospettiva radicalmente opposta alla narrazione corrente: le banche hanno accumulato i “crediti cattivi” perchè hanno dato i soldi (nostri) a chi non era più in grado di produrli. Così facendo hanno, anche loro, contribuito a generare e peggiorare la crisi.
L’autore continua introducendo la necessità della bad bank come veicolo che accoglie le “tossine” (le sofferenze) dalla banca madre allo scopo di “nuovamente fare il suo mestiere, tornare a prestar soldi e raccogliere capitali, da depositanti o da sottoscrittori di obbligazioni…”.
Eh no, come depositante ed obbligazionista non ci sto, perché se il “suo mestiere” è quello di prestar soldi come lo ha fatto in passato, generando e contribuendo ad allargare la crisi, è meglio che cambi mestiere. Smetta la banca di fornire “droga” e creare dipendenza e eroghi credito solo a scopo di sviluppo (ovvero affinché le aziende tornino a produrre cassa in autonomia) e non per creare letale dipendenza che genera zombi (morti viventi che avrebbero già dovuti essere seppelliti).
Ma le banche oggi sanno capire chi genererà sviluppo in futuro (che non sempre significa che lo ha fatto in passato) indipendentemente dalle “tutele” (garanzie) che il soggetto è in grado di fornire alla banca stessa?
Da qui in poi si passa all’illustrazione, chiara ed efficace, della strumentazione messa in atto per affrontare il tema delle sofferenze la quale strumentazione però soffre dei due problemi di fondo citati all’inizio: il rischio di gettare il bambino con l’acqua sporca e il non aver affrontato l’evitare in futuro che si creino ancora le sofferenze.
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Mettere l’azienda al centro
È evidente che il dibattito sull’argomento ha urgentemente bisogno di rimettere al centro dell’agenda il fattore iniziale dello stato di malessere generale, l’attore che con i suoi comportamenti virtuosi, o viziosi, genera, lui solo, prosperità o povertà: l’azienda.
Mettere al centro l’azienda però non significa valutarla per gli “output” che genera, i bilanci (quanto corrispondenti al reale?), o le analisi di mercati (mercati che stanno scomparendo) che parlano di dettagli.
Dell’azienda bisogno occuparsene valutando ciò che vuole fare, i suoi progetti strategici, le sue capacità di progettazione in tal senso e, nel caso, stimolarla.
Molto lontano dalle attuali capacità (e volontà) delle banche, ma non è forse il caso che anche esse, come tutti gli altri, imparino a modificare il loro mestiere?
E non il caso che si inizi a dibattere di questo argomento, invece di scervellarsi su come rimettere le cose come stavano prima (che inevitabilmente genereranno gli stessi risultati)?