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Usa impedirono a Eni e Finmeccanica di fare affari in Venezuela e Iran

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New York – Armi, giacimenti petroliferi e sistemi di comunicazione. Gli Stati Uniti tenevano d’occhio e ostacolavano tutti i progetti sospetti e ritenuti “contradditori” di Finmeccanica e Eni in paesi “nemici”.

Alla fine di giugno 2006 l’azienda della difesa e dell’aerospazio, di cui il Tesoro detiene una quota del 32,45%, voleva vendere armi alle forze navali di Chavez, ma l’affare salto’ per via del no del governo Usa. Washington fino all’ultimo monitoro’ da vicino la situazione per assicurarsi che l’azienda italiana seguisse le sue indicazioni.

E’ solo uno dei tanti esempi di come i due gruppi italiani hanno dovuto e con ogni probabilita’ devono tuttora sottomettersi ai voleri di Washington. E’ politica di Finmeccanica negoziare con l’esecutivo statunitense prima di poter procedere alla vendita di armi o altri sistemi di sicurezza agli stati con cui l’America e’ in rapporti tesi. Il 14 luglio nel cable dell’ambasciata Usa pubblicato oggi, giovedi’ 24 agosto, da WikiLeaks si apprende che infine “Finmeccanica ha deciso di non vendere le armi alle forze navali venezuelane”.

Le armi dovevano essere istallate in navi da pattugliamento costruite dalla spagnola Navantia, dunque non per scopi militari. Almeno non di facciata. Ma gli Usa erano preoccupati per l’approccio sempre piu’ autoritario mostrato dal presidente Hugo Chavez, che “sta acquistando armi in eccesso rispetto ai bisogni di auto difesa legittimi del Venezuela”.

Inoltre Caracas era accusata di non collaborare a pieno con gli Usa, nelle misure previste da adottare per combattere il terrorismo e che per questa ragione “non saranno consentiti l’esportazione o ritrasferimento di materiale e servizi per la difesa al Venezuela a partire dal primo ottobre 2006”.

Cio’ e’ stato comunicato ai vertici manageriali di Finmeccanica, che si sono dovuti inchinare al volere dell’America.

Anche se l’azienda ha chiesto il parere del governo americano, fino all’ultimo gli Usa avevano paura che andasse fino in fondo per concludere l’affare, che avrebbe portato nelle casse del gruppo 50 milioni di euro.

Nel dettaglio era la controllata Oto Melara che aveva avviato le trattative per la cessione di otto armi da sparo da 76 mm da istallare sulle navi da pattugliamento (quattro costiere e quattro oceaniche) fabbricate dal gruppo spagnolo appositamente per l’esercito dello stato sudamericano. La flotta navale e’ volta alle attivita’ di “protezione dal traffico illegale di armi e di droga e in generale oltre che per la difesa del traffico via mare”. Il contratto per la costruzione delle imbarcazioni vale nel complesso 12,5 miliardi di euro.

Anche il colosso petrolifero Eni, al 30% di proprieta’ del Tesoro, ha investimenti di un certa portata in Venezuela. Da aprile 2005, tuttavia, in seguito alle nazionalizzazioni volute da Chavez, la multinazionale, come gli altri gruppi stranieri, fu costretta a creare una joint venture con il gruppo parastatale del greggio PDVSA per restare nel paese.

L’impresa venezuelana detiene il 60% della societa’ veicolo, assicurando a Caracas un maggiore controllo sull’estrazione di greggio. Il contratto di Eni per le operazioni nel giacimento di Dacion, che produce 60.000 barili per giorno, e’ stata cancellata per quel motivo. Il gruppo guidato da Paolo Scaroni aveva investito circa 1,5 miliardi di dollari e non voleva rinunciare.

Percio’ l’amministratore delegato ha incontrato Chavez, assicurandosi che “il contratto sia valido e “se cambiano le condizioni chiederemo un’indennita’”. A sorpresa i rapporti tra governo venezuelano e Eni sono rimasti buoni e le due entita’ sono riuscite a negozionare.

Eni ha raccontato che “i segnali politici inviati da Caracas sono stati positivi. Vogliamo lavorare insieme per trovare una soluzione”. A quel momento, i negoziati avevano raggiunto un punto di stallo, con le due parti in causa che aspettavano una mossa da parte dell’altra sul fronte dei compensi. Ad ogni modo Eni ha garantito che “non lascera’ il Venezuela”, dove continua ad operare con due piattaforme petrolifere.

E’ da 16 anni che il gruppo petrolifero italiano fa investimenti in Venezuela (dal 1995 come si legge nel rapporto diplomatico top secret).

Restando in tema di paesi “nemici” degli Stati Uniti e in generale dell’Occidente, l’azienda petrolifera italiana chiese agli Usa “almeno una tacita approvazione” per un memorandum di intenti che voleva firmare con l’Iran.

L’intento del memorandum era studiare un incremento della produzione petrolifera dal bacino di Darquain. “Scaroni ha parlato della questione in una sua visita a Washington. L’anno scorso il governo aveva risposto con un secco no a un’iniziativa simile”, si legge nel cable.

“Eni vuole espandere le sue operazioni in Iran e visto il cambiamento ai piani alti dell’amministrazione, spera di vedere se puo’ ottenere una reazione piu’ positiva con questo nuovo progetto”.

“Da molti anni Eni – si legge sempre nei documenti diplomatici – e’ ansiosa di espandere le sue operazioni in Iran e pertanto potrebbe interpretare una qualsiasi reazione positiva di Washington come luce verde per andare avanti con i suoi piani di espansione”.

Va sottolineato che Scaroni si reca a Washington regolarmente (ogni anno) per vedere se la posizione di Washington sui rapporti dell’azienda con partner problematici come Russia e Iran puo’ cambiare. Ma anche nel 2006 testare il terreno non basto’.

Visto il tentativo del governo Usa di cambiare l’approccio tenuto con l’Iran, probabilmente a quel tempo Eni sperava ci fosse spazio di manovra per negoziare. Ma come l’anno prima Scaroni ottenne un secco no come risposta.

Inoltre le posizioni di Eni, ricorda l’ambasciatore, “sono in contraddizione con la sua posizione ufficiale, secondo cui non vuole avviare progetti in Iran. Ma una delle sue controllate (Polimer Europa) ha ottenuto una quota di un contratto per la costruizione di una fabbrica di petrochimici in Iran”. Poi gli Usa fecero pressioni per l’interruzione delle operazioni del gruppo italiano.

“Nonostante le belle parole spese con il governo”, scrive preoccupato l’ambasciatore Usa, secondo il ‘fact book’ 2008 “Eni sta intraprendendo progetti nel giacimento di Darquain, dove svolge attivita’ come trivellazione e iniezione di gas con l’obiettivo di incrementare i livelli di produzione”.

Nel giugno del 2006 Finmeccanica si e’ assicurata un contratto in Iran con i comuni di Isdahan e Mashhad per il rifornimento di apparecchiature radio e di comunicazione per la sicurezza. Tramite la controllata Selex Communications venduto sistemi di sicurezza per un valore pari a 6,5 million di euro.

E’ plausibile pertanto che nelle repressioni del 14 febbraio scorso, ad esempio, quando in quelle regioni si sono registrati scontri tra le forze dell’ordine e migliaia di manifestanti anti governativi, le forze iraniane si siano servite dei sistemi radio di Finmeccanica.

Sui cable si legge “Il gruppo dice di non essere in affari con l’esercito iraniano. Sono due le attivita’ in Iran ufficiali: il fornimento di turbine di energia convenzionali a un gruppo iraniano non meglio precisato (contratto da 300 milioni di euro) e servizi di ingegneria in un impianto per la produzione di alluminio, offerti nello specifico dalla divisione Fata Engineering (anche in questo caso il valore e’ di 300 milioni di euro).