Perché le banche non vogliono più i tuoi soldi

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Mariano Rocchi, consulente patrimoniale e group manager

Negli ultimi mesi il mondo bancario ha visto grandi cambiamenti: in particolare la liquidità presente sui conti correnti è cresciuta a dismisura  – a marzo, secondo i dati dell’Abi, il totale dei depositi aveva raggiunto la cifra di 1.749 miliardi di euro – con la pandemia che ha accelerato una tendenza già evidente in passato. In questo periodo i clienti tendono a non fare progetti di vita, e questo è un problema che riguarda direttamente il nostro settore: noi consulenti per primi dovremmo sensibilizzarli e invitarli a usare queste risorse per il raggiungimento dei loro obiettivi. Invece questo non sta accadendo, specie nel caso delle banche tradizionali, che spesso non si avvalgono di professionisti della consulenza che vadano a identificare le necessità di ogni singolo cliente e cercare di trovare soluzioni condivise. Altri istituti di credito, come ING, hanno addirittura comunicato la chiusura delle filiali e degli sportelli Atm. La troppa liquidità sui conti non è infatti un problema solo per il cliente, ma anche per la banca, perché rappresenta un mero costo.

La banca deve tenere questa liquidità ferma, senza percepire nessun margine di interesse, e contemporaneamente deve sopportare i costi dei dipendenti che effettuano le operazioni sui conti correnti. Questa situazione discende anche dal fatto che in Italia siamo molto indietro dal punto di vista della digitalizzazione: molti clienti non utilizzano l’home banking e quindi si recano ancora allo sportello per tutte le operazioni. Per questo motivo negli ultimi anni anche il costo di un bonifico in filiale è lievitato, passando da 1-2 euro a circa 5-6 euro. L’operatore che materialmente lo effettua rappresenta un costo per la banca, che quindi ha due alternative: far pagare più caro il servizio al cliente, oppure applicare una tariffa extra a chi detiene liquidità oltre una certa cifra. In Svizzera, ad esempio, i clienti che hanno giacenze superiori a 200mila euro pagano per tenere il loro denaro sul conto.

Fino a pochi anni fa le banche depositavano la liquidità presso la Banca centrale europea con un tasso positivo, quindi avevano un margine di guadagno. Oggi invece i tassi sui depositi sono negativi, e questa è una delle ragioni per cui gli istituti di credito fanno pagare per la liquidità. Per questo il mio consiglio è di detenere sul conto corrente solo ciò che serve per le spese vive quotidiane, per le utenze e il fabbisogno familiare. Per quanto riguarda il resto, il suggerimento è di affidarsi a persone di fiducia e cercare di utilizzare le risorse finanziarie per diversi progetti di vita, che siano di breve – uno, tre mesi – di medio – da uno a cinque anni – o di lungo periodo, cioè la previdenza integrativa, le decisioni legate al futuro dei figli o la creazione di un patrimonio che serva da integrazione reddituale.

Anziché pagare la banca per custodire i risparmi, il cliente ha davanti a sé un’opzione migliore: fare scelte corrette di investimento, individuando le migliori soluzioni a seconda delle sue esigenze o al limite, in mancanza di necessità specifiche, creando un fondo di riserva. È poi importante sottolineare che se oggi un cliente ha 100mila euro sul conto corrente e non fa investimenti che vadano a coprire l’inflazione, tra dieci anni si andrà a impoverire. Il mio auspicio è che tutti arrivino a questa consapevolezza, non perché “indotti” a farlo dai loro istituti di credito, ma dopo aver preso coscienza della necessità di investire correttamente per la propria vita e il proprio futuro.

Molte persone in questo periodo scelgono poi di utilizzare app e programmi automatici per gestire gli investimenti. Gli interrogativi che sorgono sono numerosi: strumenti di questo genere sono in grado di ascoltare il cliente, chiedergli qual è il suo profilo di rischio e scegliere per suo conto? Un’app sa che ho due figli, ipotizza quale potrebbe essere il loro percorso futuro di studi, conosce il mio attuale reddito e quello che potrebbe essere tra 20 anni? Su questi punti si definisce la differenza tra un sistema automatizzato e un consulente. Un professionista capace fa delle domande che vanno al di là delle opportunità di mercato nel breve termine. Le app scelgono, utilizzando vari algoritmi, quello che potrebbe essere un portafoglio corretto in un orizzonte di 12-24 mesi; ma per vedere se queste soluzioni possano andare bene per un determinato cliente serve un consulente che faccia le domande giuste. Questo vale se parliamo di investimenti puramente finanziari, ma ancora di più se consideriamo anche un altro aspetto, ancora più importante soprattutto per chi ha un patrimonio e cerca di proteggerlo: le tutele. Un consulente è in grado di comprendere quali sono i prodotti più adatti per ogni caso specifico: se c’è ad esempio la necessità di gestire la successione aprendo una polizza. Quando si parla della pianificazione del futuro l’app può essere un benchmark con cui confrontarsi, ma al cliente serve una persona che costruisca un portafoglio su misura.

Nella mia esperienza professionale ho incontrato clienti, anche molto evoluti, che effettuavano operazioni di trading su piattaforme dedicate, e purtroppo le loro esperienze non sono state positive. A mio avviso questi strumenti sono utilissimi se vengono usati a supporto della cultura finanziaria personale, e anche per un confronto con il consulente di fiducia; ma se parliamo di progetti di vita, che sono diversi per ognuno di noi, nessuna macchina può decidere al posto nostro.

 

Questo articolo fa parte di una rubrica di Wall Street Italia dedicata ai consulenti finanziari che vogliono raccontare le loro esperienze e iniziative professionali. Se siete interessati a pubblicare una vostra storia scriveteci a: social.brown@triboo.it


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