I 7 peccati capitali dell’investitore

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Articolo di Filippo Scarpini, consulente finanziario di Ancona

Il mese di febbraio ha messo a dura prova la tenuta emotiva degli investitori. Se l’insediamento del nuovo Governo Draghi ha trainato la borsa italiana, oltreoceano l’indice NASDAQ, dopo mesi di corsa, nelle ultime settimane ha mostrato qualche segnale di debolezza e lo stesso si può per le borse asiatiche.

In questi momenti, la spia dello scoppio di una bolla speculativa è sempre accesa nella mente del risparmiatore, che è sempre tentato di prevenire e prevedere un imminente crollo. Sulla base di che informazione? Spesso nessuna. La maggior parte degli investitori ragionano in maniera impulsiva, prestando poca attenzione ad analizzare dati in maniera approfondita.

I bias sono uno dei più grandi ostacoli alla tenuta emotiva dell’investitore. Fanno parte della finanza comportamentale, una branca della finanza che analizza le decisioni finanziarie da un punto di vista psicologico e sono paragonabili a pregiudizi della mente che ostruiscono la razionalità degli individui.

Purtroppo i risultati che otteniamo negli investimenti dipendono quasi sempre più dai nostri comportamenti, che dall’andamento dei mercati.

Ma quali sono le più frequenti scorciatoie mentali che ci limitano nelle scelte di investimento e ci spingono a “peccare”?

 

1. Home Bias

In finanza comportamentale si parla di home bias quando si concentra la totalità del portafoglio in titoli di società nazionali, in quanto più familiari. Gli investitori italiani sono tra i più peccatori in questo senso. Quanto è rassicurante comprare un prodotto made in Italy se ci troviamo in vacanza all’estero?

Allo stesso modo si tende a preferire titoli o comparti a noi vicini geograficamente, sebbene l’eccesso di patriottismo abbia poco a che vedere con la pianificazione finanziaria. Questo comportamento diventa ancor più controproducente in un contesto iper-globalizzato come quello attuale, nel quale prescindere da una diversificazione globale degli attivi può impedirci di sfruttare opportunità su mercati a noi meno familiari.

Un approccio internazionale consente un’esposizione su tutti i settori globali. Per esempio l’indice MSCI World, con il suo 65% circa di esposizione negli USA, permette di abbracciare settori poco sviluppati in Europa come la tecnologia, la robotica e intelligenza artificiale.

In altre parole, l’investitore italiano che si limita ad investire in società domestiche, deve prendere atto che la nostra borsa pesa meno del 2% all’interno del panorama mondiale.

 

2. Effetto gregge

L’effetto gregge rappresenta la tendenza ad emulare il comportamento degli altri. Spesso ci fidiamo poco delle nostre intuizioni, limitandoci a replicare il comportamento della massa. È un atteggiamento da sempre presente nella psiche umana, ma in alcuni ambiti può portare a conseguenze devastanti.

Sono principalmente due i motivi che spingono ad emulare le scelte di investimenti degli altri.

  • In primis riteniamo che, se la massa prende determinate scelte, è perché è più informata di noi. Si pensi al classico esempio di 2 ristoranti adiacenti, uno gremito, l’altro vuoto. Logicamente siamo portati ad andare nel primo fidandoci della massa, ma non abbiamo analizzato se questa scelta di gruppo deriva da ragioni qualitative o da una semplice coincidenza.
  • L’altro motivo è che siamo più disposti a sbagliare in gruppo, che ad avere ragione da soli. L’essere parte di una cerchia di comuni pensatori ci rassicura a tal punto che agire correttamente diventa secondario rispetto ad agire collettivamente.

In finanza, replicare l’atteggiamento degli altri può essere pericoloso. “È impossibile che così tanta gente possa aver torto”, pensiamo. Eppure spesso è così.

 

3. Overconfidence

L’eccesso di sicurezza (overconfidence) è l’esatto opposto dell’effetto gregge. In questo caso si tende ad avere troppa fiducia nei propri mezzi e questo ci porta a sopravvalutare la nostra visione del mercato in tema di investimenti.

In altri termini, è una sovrastima delle nostre capacità riguardo a informazioni, competenze e conoscenze, che ci porta ad avere talvolta un atteggiamento di arroganza o eccessiva valutazione delle proprie abilità. Molti ritengono di poter ottenere rendimenti più alti rispetto a quelli del mercato, considerano i trend di breve termine come fossero a lungo termine e si accontentano di nozioni minime.

L’eccessiva fiducia di sé stessi è un atteggiamento tanto diffuso quanto pericoloso, perché le convinzioni spesso poggiano su elementi superficiali o luoghi comuni.

L’investitore “overconfident” tende a semplificare il contesto in cui opera, ritenendo superfluo l’approfondimento clinico dei dati o l’appello ai consigli di un esperto del settore.

 

4. Bias di conferma

Questo tipo di bias cognitivo si manifesta nella ricerca delle sole informazioni che confermano il nostro punto di vista, ovvero è la tendenza ad evitare informazioni che possano mettere in dubbio la nostra tesi.

Si pensi alla politica, un elettore di un determinato partito tenderà a dare maggior peso a pensieri o programmi televisivi in linea con il suo pensiero piuttosto che ascoltare trasmissioni con idee contrastanti. Un altro esempio è rappresentato dagli ultras di certi prodotti (per esempio gli smartphone della Apple), che sono spinti a leggere più le recensioni positive che quelle negative, per evitare di dover cambiare brand.

Lo stesso fa l’investitore, che è portato a consultare notizie che confermano la sua idea di investimento, ignorando e censurando preventivamente i segnali contrari. Ciò comporta una visione distorta del contesto, nella quale lo scenario attorno a noi cambia, senza che ce ne accorgiamo.

 

5. Avversione alle perdite

Questo bias crea un’asimmetria paradossale tra l’atteggiamento che si ha verso la perdita rispetto al guadagno.

Gli individui sono per loro natura avversi alle perdite, ma alla domanda: “ponendo un capitale iniziale di 100€, la gioia di guadagnare 50€ è uguale al dispiacere di perdere 50€?” rispondono in maniera spesso irrazionale. Alcuni studi hanno messo in luce che, a parità di importo, una perdita provoca più insoddisfazione che euforia, con un rapporto pari a circa 2,5 volte.

L’avversione alle perdite diventa “miope” se queste perdite sono considerate quasi esclusivamente nel breve periodo. Questo accade quando si monitora il portafoglio in maniera continua e ossessiva. Il rischio è quello di vendere troppo presto o, al contrario, mantenere titoli in perdita troppo a lungo.

Come agire? Occorre conoscere sé stessi e quello che si vuole ottenere. Se l’obiettivo è di lungo periodo, è inutile focalizzarsi sulle sole performance di breve periodo.

 

6. Mantenimento dello status quo

Per alcune persone il cambiamento è un passo molto difficile da affrontare, un vero tabù.

È facile trovare investitori che hanno mantenuto per molti anni la stessa composizione di titoli in portafoglio, senza mai realmente chiedersi se quella composizione avesse ancora senso o necessitasse di modifiche in linea con l’evoluzione dei mercati.

Un esempio è lo storico amore incondizionato degli italiani verso i titoli di stato (anche se va detto che anche in Europa ci sono situazioni analoghe). Molti continuano ad acquistare titoli di stato, oppure semplicemente a mantenerli in portafoglio, basandosi su convinzioni ormai sradicate che non hanno più evidenza oggi.

Con il rendimento del BTP a 10 anni stabilmente sotto il punto percentuale e il BTP a 5 anni prossimo allo zero, appare evidente che le opportunità di rendimento si siano ridotte drasticamente negli ultimi anni.

Mantenere la stessa composizione di portafoglio di 10 o 20 anni fa è spesso più un errore di inerzia che di concetto. Occorre accettare il cambiamento e cavalcare i nuovi trend, liberandosi di dogmi ormai superati.

 

7. L’euristica della disponibilità

L’euristica della disponibilità è un escamotage mentale che ci porta a collegare in maniera semplicistica la probabilità di un determinato evento ad eventi analoghi che richiamano la nostra memoria. Fatti recenti o significativi (per vari motivi) ci sembrano un campanello di allarme che ci porta ad aggirarli.

In seguito all’attentato dell’11 settembre 2001, la paura di volare e il rischio dirottamento aveva innescato l’abitudine tra i viaggiatori americani di percorrere importanti distanze in auto anziché in aereo, provocando un boom di incidenti mortali rispetto agli anni precedenti.

Il richiamo alla memoria deriva dall’esigenza della mente umana di ragionare in maniera schematica e prendere decisioni in tempi rapidi, sulla base di esperienza passate (dirette o indirette).

Questo rappresenta una limitazione notevole e un approccio ancor meno efficace oggi, in un’epoca in cui grazie ai social e ad internet è facile disporre in ogni momento di informazioni adeguate e verificabili.

 

Questo articolo fa parte di una rubrica di Wall Street Italia dedicata ai consulenti finanziari che vogliono raccontare le loro esperienze e iniziative professionali. Se siete interessati a pubblicare una vostra storia scriveteci a: social.brown@triboo.it


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