ROMA (WSI) – Secondo un rapporto diffuso qualche mese fa dalla Banca Mondiale, emergerebbe che nel nostro Paese è davvero difficile avviare una nuova iniziativa imprenditoriale e l’Italia, in questo ambito, si posizionerebbe addirittura dopo lo Zambia.
Sempre secondo quanto ci dice la Banca Mondiale, le difficoltà che si riscontrano nella creazione di un’impresa sarebbero attribuibili a taluni adempimenti amministrativi che, normativamente, chi avvia un’impresa deve assolvere, ed anche ai costi “amministrativi” per avviare la fase di start up.
Pur condividendo, in toto, quanto affermato dall’istituzione finanziaria, se è vero che in Italia è molto difficoltoso avviare un’impresa, altrettanto vero è che, in taluni casi, è molto difficile mantenerla e farla vivere.
Sebbene l’iniziativa imprenditoriale, almeno sulla carta, non sia negata a nessuno e pur esistendo non pochi cavilli burocratici da assolvere sia all’atto della costituzione, sia durante la vita dell’impresa, talvolta risulta impossibile esercitare un’attività per una serie di fattori che costituiscono la vera e propria discriminante dell’essere imprenditori.
In questo articolo mi limiterò a parlare di alcune problematiche fiscali che, secondo la mia opinione, costituiscono un vero disincentivo nel fare impresa, proponendomi di approfondire in seguito, con ulteriori articoli, altre tematiche comunque rilevanti ai fini del nostro ragionamento.
Al di là del più noto e certamente più discusso tema del livello del prelievo fiscale, che è sicuramente ai massimi livelli, e certamente strangolante per le imprese italiane rispetto ai concorrenti esteri, in questo articolo, mi vorrei soffermare su alcune circostanze ben poco note all’opinione pubblica e neanche troppo cavalcate dai media.
In primo luogo va osservato che in Italia vige un sistema di imposizione fiscale e di pagamento di tributi, che rappresenta un vero e proprio disincentivo per chi vorrebbe avviare un’iniziativa imprenditoriale o semplicemente una attività economica. Ciò, poiché, come noto, nel corso di un determinato periodo temporale, peraltro abbastanza ristretto ed individuato dal fisco a ridosso dei mesi estivi, fino ad arrivare ai primi mesi autunnali, ogni imprenditore è tenuto a versare all’erario quanto dovuto in termini di tasse (Irpef, Ires, Irap, contributi Inps) sia a titolo di saldo relativo all’anno passato, sia a titolo di acconto per l’anno in corso. Ebbene, tale pratica, secondo la mia opinione, rende l’inizio dell’attività imprenditoriale particolarmente difficoltosa e ne costituisce un vero e proprio disincentivo per l’impatto che ha il prelievo fiscale, soprattutto nei primi anni di attività. Un esempio potrà aiutarci a ben comprendere di cosa stiamo parlando.
Ipotizziamo che un imprenditore,attraverso la sua ditta individuale, abbia avviato la sua attività all’uno gennaio del 2011 e alla fine dell’anno, il suo bilancio, presenti un utile di 50.000,0 euro, al lordo di imposte.
Ebbene, il nostro imprenditore, nel periodo che intercorre tra giugno e novembre del 2012, stando alle regole fiscali del TUIR, dovrà versare all’erario quasi tutto l’utile realizzato nel 2011.
Ciò, in quanto, stando al dettato normativo, egli dovrà versare, entro il 30 novembre, sia il saldo per l’anno 2011 (circa 25000 tra imposte e contributi), sia l’acconto per l’anno 2012 che, con le dovute distinzioni e peculiarità per ogni tipo di imposta e contribuzione, è di circa il 100% dell’imposta dovuta a titolo di saldo dell’anno precedente, e quindi ulteriori 25000 euro a titolo di acconto per il 2012 salvo differirli in avanti ma pagando le relative sanzioni. Stando così le cose, comprenderete agevolmente quanto sia disincentivante, per un aspirante imprenditore, avviare un’attività sapendo, già in origine, che i guadagni realizzati nel primo anno dovranno essere versati totalmente al fisco, già nel mezzo del secondo anno di impresa.
Senza considerare poi che, nel secondo anno, le cose potrebbero andare in maniera diversa ed essere peggiori rispetto al primo esercizio, compromettendo l’esistenza dell’impresa che si troverà comunque a fare i conti con le (non) ragioni del fisco. In tal senso, l’impatto impositivo che si manifesta già nel secondo anno di attività, oltre costituire un vero pericolo per l’esistenza dell’impresa, sottrae cospicue risorse dalla gestione dell’attività, compromettendone anche la possibilità di favorire processi di investimento, basilari soprattutto nei primi anni di vita dell’impresa.
Un ulteriore aspetto disincentivante legato alle tematiche fiscali, che in genere colpisce ogni imprenditore, è costituito dall’aleatorietà di ciò che è dovuto al fisco durante la vita di impresa. Invero, tutti governi fin qui succeduti, ci hanno abituato all’impossibilità di prevedere una corretta pianificazione fiscale nell’impresa che, a parer mio, resta ugualmente importante ed imprescindibile per fare una buona attività di impresa.
La mancanza di una normativa chiara, univoca e organica a livello fiscale, unita alla necessità delle finanze pubbliche di poter contare sempre su un maggior gettito fiscale e la ricerca sempre spasmodica di nuove risorse, hanno stimolato la miopia dei governanti che hanno quasi sempre adottato soluzioni dettate dallo stato di bisogno, e comunque non conformi a logiche di certezza normativa e stabilità (nel tempo) della disciplina fiscale, venendo meno, talvolta, a patti con i contribuenti.
Insomma, si ha come la sensazione (che poi tanto sensazione non è) che si sia andati avanti arraffando un po’ qua e un po’ la, dove si è potuto, senza guardare troppo al futuro e senza occuparsi di quali sarebbero stati gli effetti prodotti da tali pratiche. Questo modus operandi, oltre a favorire l’infedeltà fiscale del contribuente, ha reso ancor più complesso orientare i consulenti fiscali e tributaristi nell’interpretazione di norme fiscali in perpetuo mutamento e, talvolta, contraddittorie rispetto all’intero apparato normativo.
Non è un caso, infatti, che dinanzi le commissioni tributarie pendano ormai centinai di migliaia di contenziosi che, stando ai dati forniti della stessa agenzia, il più delle volte, vedono soccombere l’amministrazione finanziaria con un notevole aggravio di costi per lo stato. Senza considerare poi i costi sostenuti dagli imprenditori che, oltre ad anticipare o sostenere – talvolta- le spese di giudizio, patiscono anche un notevole aggravio di tempo nella soluzione della controversia. Tempo prezioso sottratto alla propria attività e allo sviluppo della propria impresa. La mancanza di una visione di luogo periodo nella legiferazione su tematiche fiscali, unita ai livelli di imposizione fiscale ai limiti della sostenibilità e della schizofrenia, ha contribuito, non poco, a favorire fenomeni evasivi ed elusivi. Tanto è vero che, come noto, l’infedeltà fiscale italiana è un primato (in negativo, si intende) in tutto il contesto europeo.
La costruzione di un impianto normativo privo di logiche aderenti a principi di certezza normativa, e universalità di interpretazione della norma, che si sostanzia, di fatto, nella coesistenza di una moltitudine di norme non organiche, talvolta contraddittorie, che lasciano spazio a diversi profili di interpretazione che talvolta sono alla base di contestazioni e giudizi nelle varie corti tributarie, non costituiscono un incentivo a fare impresa. Al contrario, rappresentano un ostacolo alla corretta e normale gestione imprenditoriale, alla pianificazione fiscale, e favorisce fenomeni evasivi e tanto più elusivi. E’ evidente che un’architettura normativa uniforme ed organica, contribuirebbe anche ad una minore spesa in capo agli enti proposti ad accertare e contrastare fenomeni di evasione fiscale.
Ad aggravare la situazione appena descritta c’è da dire che il quadro normativo con cui il fisco procede con l’attività di accertamento, non sembra, almeno per il momento, essere rispettoso ed equo nei confronti del contribuente, posto il fatto che, ad esempio, gli studi di settore, determinano i ricavi di ciascuna impresa in modo statistico e talvolta indiscriminato, senza possibilità di considerare le peculiarità tipiche di ciascuna impresa, se non davanti alle corti tributarie; posto che, talune osservazioni, minimamente non vengono accolte durante la fase del contraddittorio.
Inoltre, sempre in tema di studi di settore, la valenza probatoria di questo strumento di accertamento è stata più volte smentita anche da una pluralità di sentenze che hanno disorientato l’amministrazione stessa che più volte è intervenuta a riposizionare il modus operandi durante le fasi di accertamento dei propri ispettori.
Il quadro appena descritto, pur sintetizzando in maniera semplice alcune criticità del fisco, ci rappresenta, almeno in parte, un ambiente fortemente disincentivante per la creazione di impresa e sopratutto per la sua sopravvivenza. In un contesto come quello attuale, dove si sta assistendo allo sterminio di migliaia di imprese, appare del tutto irrealistico poter pensare che le imprese cessate e/o delocalizzate, possano essere rimpiazzate da nuove iniziative imprenditoriali, stando all’ostilità del fisco e all’irragionevolezza della pretesa tributaria.
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