ROMA (WSI) – L’idea di infilare a panino nella Legge di Stabilità una disposizione contro quello che si chiama proprio sistema del doppio caffè irlandese con panino olandese (un sistema per effetto del quale molte internet company pur vendendo servizi in un paese Ue, pagano poi le tasse in un diverso Paese UE) continua a far discutere.
Divenuta celebre come Google tax o web tax per via del dichiarato intento che attraverso essa si perseguirebbe, l’idea ha, nelle ultime settimane, preso corpo attraverso la proposta di legge presentata alla Camera dei deputati da Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio di Montecitorio il quale – in buona compagnia – ora vorrebbe trasformarla in un emendamento appunto alla legge di stabilità così da garantirne una più rapida approvazione.
La proposta è semplice e non originale: imporre a chi fornisce servizi telematici in un determinato Paese Ue da un altro paese Ue di pagare l’IVA nel paese di destinazione dei servizi anziché in quello della propria sede.
Non c’è nessun conflitto tra questa soluzione e il quadro normativo europeo. Anche l’Europa si è da tempo posta lo stesso problema e gli ha dato analoga soluzione sebbene – a differenza di quanto si vorrebbe fare in Italia – prevedendo un lungo e graduale periodo transitorio che dovrebbe condurre tutti i Paesi dell’Unione ad adottare analoga soluzione nel 2015.
Ma il punto è proprio questo. Che la Webtax sia giusta o sbagliata, opportuna o non opportuna sotto il profilo del merito, in questo momento conta davvero poco.
A renderla fuori legge – secondo la disciplina europea – infatti sono i termini e le modalità con i quali si vorrebbe attuarla in Italia.
Ciò che proprio non si può fare – e sorprende che un addetto ai lavori come Boccia non se ne avveda o dica di non avvedersene – è imporre a chi voglia continuare a vendere i propri servizi nel nostro Paese di dotarsi anche di una partita IVA italiana (oltre a quella del proprio paese).
Inoltre deve accettare l’idea che il solo proprio business in Italia sia assoggettato a regole diverse rispetto a quelle che governano i propri affari nel resto d’Europa.
Francamente puerile è la tesi proposta dallo stesso Boccia secondo il quale, in realtà, la sua creatura non imporrebbe a nessuno di dotarsi di una partita IVA italiana, giacché si limiterebbe ad imporre a chi acquista i servizi di farlo da solo da soggetti che in Italia hanno una partita IVA.
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Come dire che se una legge imponesse ai cittadini italiani di acquistare servizi solo da imprese italiane, così facendo non imporrebbe – o almeno indurrebbe – le imprese del resto d’Europa a stabilirsi nel nostro Paese.
Se la webtax entrasse in vigore le società con sede in paesi europei diversi dal nostro si ritroverebbero a dover scegliere, dalla sera alla mattina, se dotarsi di una partita IVA italiana e capire come funzionano le cose nel nostro Paese o rinunciare al nostro mercato.
Se questo non chiama imporre loro di dotarsi di una partita IVA, significherà forzarle a farlo. Ed è davvero difficile pensare che si tratti di un comportamento fair da un punto di vista europeista e, soprattutto, di una decisione compatibile con la disciplina europea.
Non è un caso se a Bruxelles, quando si è deciso di cambiare le regole del gioco, oltre a fissare una scadenza medio lunga come quella del 2015, ci si è subito preoccupati di implementare un sistema in forza del quale una società – fermo restando l’obbligo di pagare poi l’IVA nel paese di destinazione – potrà provvedere a tutti gli adempimenti a ciò necessari attraverso un unico codice ed un unico portale online.
Ogni soluzione diversa – inclusa la webtax all’amatriciana alla quale pensa il Presidente della commissione Bilancio della Camera – si porrebbe, inevitabilmente, in contrasto con il principio della libera circolazione dei servizi sul quale è costruito l’intero mercato unico europeo.
Si tratta d’altra parte – ed un altro elemento che dovrebbe far riflettere – dell’opinione di Gianni Pittella, compagno di partito di Boccia ma, soprattutto, vice-presidente vicario del Parlamento Europeo e, dunque, almeno sulla carta, uno che di regole dell’Unione Europea dovrebbe capirne qualcosa.
Se quindi vogliamo evitare che il resto d’Europa ci rida dietro, che la Commissione europea ci richiami al rispetto delle regole del trattato di Roma e, soprattutto, che le internet company del mondo intero si convincano di quanto difficile sia fare business in Italia, dobbiamo assolutamente fermarci e resistere alla perversa tentazione di varare ora e così una web tax.
Non ne vale davvero la pena, non per raccogliere qualche milione di euro in più (forse) da qui al 2015, quando regole analoghe a quelle che noi oggi vorremmo introdurre con un’evidente forzatura, entreranno in vigore in tutta Europa e senza creare alcun problema al mercato unico europeo. Se non il diritto, valga almeno il buon senso a suggerire di non insistere sulla strada cara a Boccia.
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