I paragoni si sprecano nel caso che ha visto sprofondare in borsa il colosso informatico tedesco Wirecard e in manette il suo fondatore ed ex ceo, Markus Braun. Quest’ultimo, noto come lo Steve Jobs tedesco, sarebbe la mente di una truffa contabile miliardaria che ha subito fatto parlare di un “caso Parmalat tedesco”.
A mancare all’appello sarebbero 1,9 miliardi euro di liquidità che, pur figurando nel bilancio, sono “probabilmente inesistenti”, a dire dello stesso Braun – che attualmente si trova in stato di fermo presso la Procura di Monaco di Baviera. L’accusa che la stessa procura ha mosso nei suoi confronti è quella “di aver gonfiato i dati di bilancio e il fatturato per far apparire la sua società più forte e più attraente per gli investitori e la clientela”.
Secondo quanto affermato dal pm “la condotta dell’accusato giustifica il sospetto di una presentazione imprecisa e di una manipolazione del mercato”. Un sospetto corroborato da forti evidenze di colpevolezza emerse nel corso delle intercettazioni effettuate dagli inquirenti. Braun, che si è dimesso ieri (22 giugno) dalla carica di ceo, si sarebbe consegnato spontaneamente alle autorità che stanno indagando sul caso.
Il selloff sul titolo Wirecard, società specializzata in tecnologie e servizi finanziari, era partito alcuni giorni prima della notizia del fermo ai danni del fondatore della società (per la precisione lo scorso 18 giugno): la società di revisione EY, infatti, si era rifiutata di firmare il bilancio della società, provocando un tracollo azionario superiore all’80%. La società ha deciso di ritirare i dati di bilancio preliminari per il 2019 e risultati relativi al primo trimestre 2020. L’agenzia di rating Moody’s, da parte sua, ha ritirato ieri (22 giugno) il suo rating sulla società.
La risonanza del caso Wirecard è stato enorme in Germania: lo stesso presidente della Bafin, la Consob tedesca, ha definito la vicenda come “un disastro completo e una vergogna per la Germania”.