Wirecard: un disastro annunciato dal quale (forse) non abbiamo ancora imparato niente
di Maurizio Pimpinella
Ciò che la vicenda Wirecard ci sta insegnando in questi giorni è la dimostrazione che, in presenza di determinate condizioni, nessuno è davvero “too big to fail”, lezione che avremmo già dovuto imparare a seguito del fallimento della Lehman Brothers.
L’azienda, attiva nell’ambito dei servizi finanziari e dei pagamenti, appariva fino a poco tempo fa come un vero e proprio fiore all’occhiello e campione del fintech tedesco. Eppure, ciò che è successo fa tremare dalle fondamenta non solo gli operatori ma le stesse Istituzioni di controllo tedesche, ree di non aver controllato con adeguata sollecitudine quanto avveniva in Wirecard. Parliamo di un’azienda che fino a pochi mesi fa rappresentava uno dei titoli principali del DAX 30 di Francoforte e capitalizzava più di 20 miliardi di euro, salvo poi scoprire che due miliardi di attività semplicemente non esistevano e che molti tra coloro che avrebbero dovuto vigilare non se ne erano accorti o avevano fatto finta di non vedere.
Proprio a causa di queste mancanze, la vicenda Wirecard può rappresentare un pericoloso vulnus per la credibilità del fintech, del sistema dei pagamenti e delle Istituzioni stesse. In questa fase, il rischio è che si perda tutto il capitale di fiducia accumulato con fatica nel corso di anni, proprio ora che, ad esempio, il settore dei pagamenti elettronici ha mostrato tutta la sua potenzialità.
Lo scandalo Wirecard impone un’analisi e una riflessione approfondita delle sue cause e delle sue ripercussioni, ad iniziare dal modello di controllo tedesco, anche perché ora il timore è che quanto accaduto si allarghi come una nera macchia di olio esausto.
In questa vicenda, infatti, i risparmiatori che si erano affidati fiduciosi a Wirecard sono quelli che (ovviamente) hanno subito il danno più grave; ma ciò che sconvolge e allarma ancora di più è il fatto che il sistema di governance tedesco abbia giustificato le proprie mancanze in ambito di vigilanza affermando candidamente di non essere in grado di intercettare frodi del genere: ciò che può frantumare la fiducia dei risparmiatori come nient’altro al mondo.
Se un elemento di questa vicenda può addirittura aggravare la posizione delle istituzioni di vigilanza tedesche è il fatto che tutto ciò sia avvenuto a seguito di quello che Marco Onado sul Sole 24Ore del 7 luglio ha definito “un diluvio (a tutti i livelli) di nuove norme nel tentativo di rendere più efficace sia il sistema di revisione contabile sia i controlli interni delle imprese”, evidentemente causando un effetto esattamente opposto che ha reso la governance più debole e notevolmente meno incisiva.
Inoltre, le ripetute frodi che hanno coinvolto le case automobilistiche e la stessa Deutsche Bank non sono, evidentemente, servite ad imporre un cambiamento di rotta.
Per il momento, l’Italia è stata coinvolta poco più che marginalmente dallo scandalo e questo grazie soprattutto alla pronta reazione delle nostre imprese che hanno tutelato i loro clienti esponendosi in prima persona.
Ma ciò che emerge da questa vicenda è – ancora una volta – l’assoluta necessità di controlli ferrei, comuni e di uniformità nelle norme che le imprese finanziarie sono tenute a seguire, a prescindere dall’apparente apporto innovatore di cui sono portatori, nell’interesse stesso dei consumatori, del mercato e delle Istituzioni.
L’interconnessione economica e finanziaria nella quale viviamo impone la costituzione di un sistema di vigilanza europeo che si coordini con quelli nazionali, anche perché le questioni che possono avere ripercussioni sulle economie e sui cittadini di tutta Europa non possono essere affrontate in maniera parcellizzata: è necessaria una visione d’insieme e un altrettanto articolata forza d’impatto.
A questo proposito, ciò che lascia sconcertati è la constatazione della mancanza di visione di medio degli attori chiamati in causa in questa vicenda: una scarsa visione prospettica caratterizzata anche da gravi distorsioni che hanno condotto le imprese ad allontanarsi troppo spesso da un approccio sostenibile e dai veri obiettivi di medio e lungo periodo, che non sono sempre quelli di massimizzare il profitto, portando alcuni commentatori a parlare di rigged capitalism, vale a dire di un sistema truccato.
Ma davvero era tutto impossibile da prevedere e dobbiamo rassegnarci che certe cose debbano accadere senza che si possa fare nulla per evitarle? Certamente no, ma per riuscirci è necessario posizionare le “antenne” ben orientate e nei punti giusti così che possano rilevare ogni minima vibrazione.
Questo è lo spirito che, ad esempio, ha portato il Centro Studi A.P.S.P. a realizzare uno studio unico nel suo genere indirizzato a mappare le caratteristiche e i modelli operativi di tutti gli operatori finanziari europei che agiscono anche in Italia. Gli esperti che hanno lavorato alla sua realizzazione godono, infatti, di una visione d’insieme dei fenomeni economici, frutto di competenze ed esperienze di respiro internazionale, maturate anche in virtù del ruolo centrale che l’Associazione ricopre a livello europeo come membro fondatore della Payments Europe Association. L’A.P.S.P., poi, è un punto di riferimento per oltre 100 imprese, associazioni ed importanti player pubblici, portatori a loro volta di esperienze, competenze ed istanze che possono contribuire ad arricchire e far crescere il dibattito sui temi cruciali per il nostro Paese, come quello del digitale e dei pagamenti elettronici, portando un importante valore aggiunto anche alle Istituzioni.
Da queste premesse deriva la necessità di istituire un comitato permanente presso il Ministero dell’economia e delle finanze che funga da stimolo e coordinamento per le attività normative e regolamentari a tutela delle nostre peculiarità nazionali.
Per questo è auspicabile che a riforme fatte per forza siano preferiti interventi mirati, armonici e organici, ancorchè radicali, tesi ad evitare che al danno dello scandalo si aggiungano anche le beffe di nuove regole spacciate per panacea.
Tutto ciò, anche al fine di scongiurare che norme non generali e recepite in maniera disomogenea possano essere il primo passo per far nascere la prossima generazione di scandali come Wirecard che rischiano di minare senza possibilità d’appello la credibilità di un mercato in gran parte sano, portatore di innovazione e produttivo.