ROMA (WSI) – Se un economista di scuola liberale come Luigi Zingales si mette a invocare l’intervento diretto dello Stato nelle banche, c’è da scommettere che le chance di successo dei vari sistemi “misti” di garanzia per la ricapitalizzazione e lo smaltimento dei crediti deteriorati del sistema, allora, sono ben poche. Un’ampia proposta di salvataggio del noto economista della Chicago Booth School of Business è comparsa sul Sole24Ore.
Zingales ha esordito con frasi certamente poco rassicuranti:
“L’unica certezza è che tutte le alternative per salvare il sistema bancario italiano sono state già esplorate senza successo. L’incertezza sul reale valore dei crediti deteriorati nei bilanci delle banche sta producendo una crisi generalizzata di fiducia nel sistema bancario, che potrebbe avere effetti devastanti. Per evitarla rimane solo un intervento diretto dello stato nel capitale delle banche. Non è una raccomandazione che ripeto a cuor leggero, ma a mali estremi, estremi rimedi. E certo i mali oggi sono estremi”.
Zingales, dopo aver spiegato che la creazione di un fondo analogo ad Atlante negli Stati Uniti aveva tosto rivelato la necessità di “immettere capitale pubblico nel sistema bancario”, articola una proposta che, garantisce, alla fine si rivelerebbe vantaggiosa per i contribuenti, come nel caso americano.
Esattamente chi dovrebbe intervenire?
“In un mondo ideale questo intervento dovrebbe essere effettuato dal Tesoro italiano. Siccome non viviamo in un mondo ideale e le regole europee ci proibiscono un tale intervento prima di aver effettuato un bail-in pari all’8% dell’attivo bancario, l’unica soluzione possibile è fare questo intervento tramite la Cassa depositi e prestiti (Cdp), che è fuori dal perimetro dello Stato [Il Mef, tuttavia ne detiene oltre l’80% dell’azionariato, Ndr.]”.
Secondo le stime dell’economista, basate sullo scarto fra la parte già “coperta” dei Npl e quella che il mercato sarebbe disposto a pagare per acquisirli, i miliardi necessari al sistema bancario italiano sono 40.
“La Cdp dovrebbe quindi impegnarsi ad investire in ogni banca”, e arriviamo al punto, “una cifra pari al 20% dei crediti in sofferenza. Il segreto è immettere capitale sotto forma di azioni “preferred” convertibili in azioni ordinarie. Il vantaggio delle preferred americane, rispetto alle nostre privilegiate, è che sono redimibili da parte della società emittente ad un valore predeterminato. Se la banca è sana, può facilmente nei mesi successivi emettere azioni ordinarie sul mercato e riacquistare le preferred emesse, tutelando il valore degli azionisti esistenti. Se invece la banca non è solida, questo capitale servirà di garanzia”.
Le azioni preferred, secondo Zingales permetterebbero di proteggere sia i depositanti sia tutte le categorie di obbligazionisti, ma non gli azionisti e “se le perdite” della banca “sono elevate, gli azionisti esistenti sono spazzati via e le preferred diventano azioni ordinarie”.
L’iniezione di capitale tramite le azioni “preferred” andrebbe condizionata da diversi paletti in grado di evitare il “rischio che il management si approfitti dei soldi dei contribuenti”.
Posto che l’Europa possa tollerare un intervento di questo tipo (le ben più modeste Gacs, con garanzia di Cdp, erano costate lunghi ed estenuanti negoziati) resta il fatto che il salvataggio pubblico delle banche non è mai piaciuto a nessuno, tantomeno all’uomo comune, pronto a gridare allo stato amico dei banchieri. A questa critica Zingales risponde in modo chiaro:
“Bisogna spiegare qual è oggi l’alternativa: il caso Etruria moltiplicato per 100. L’intervento statale non è quindi per salvare i banchieri, ma per salvare i depositanti e tutti coloro ai quali sono stati rifilati i bond bancari ‘sicuri’”.